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Mondo
dicembre, 2007

Ecobomba Indonesia

La corsa a disboscare Sumatra libererà 49 miliardi di tonnellate di CO2. Un disastro senza precedenti. Per produrre olio di palma destinato anche all'Italia

Riau è un puntino sulla carta geografica, una provincia dell'Indonesia laggiù, in mezzo all'isola di Sumatra. Dovremmo abituarci a familiarizzare con quel nome esotico e non per immaginarci vacanze in un Paradiso. Quando si degrada, il Paradiso perduto diventa minaccia globale, nel Pianeta interdipendente. Se si distrugge, come sta succedendo, la torbiera di Riau, poco più di 4 milioni di ettari, la stessa estensione della Svizzera, si liberano nell'aria 49 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, cioè l'equivalente di emissioni di gas serra di tutta la Terra per un anno. Il dato, clamoroso, è di Greenpeace. Se si teme possa essere di parte, è confermato dagli scienziati indipendenti dell'Ipcc (Comitato intergovernativo sul cambiamento climatico), un organismo delle Nazioni Unite. Cosa possiamo fare qui per quello che succede là? Semplice: ridurre l'uso dell'olio di palma. O non usare olio di palma che arriva dall'Indonesia. Quale connessione c'è tra la torbiera e l'olio di palma è domanda che merita una spiegazione larga.

Premessa. Le foreste che ancora esistono trattengono 500 miliardi di carbonio. Le foreste torbiere, in particolare, hanno la prerogativa di immagazzinare carbonio nel primo passaggio della materia organica verso la fossilizzazione che può portare alla trasformazione in carbone o petrolio. Hanno svolto egregiamente questo lavoro nel corso dei millenni. Ora vengono aggredite. Negli ultimi 50 anni circa 74 milioni di foresta indonesiana sono andati perduti. Il ritmo è cresciuto negli ultimi anni (due milioni ogni 12 mesi, l'equivalente del Belgio). Motivo primo: il commercio di legname pregiato. Solo il motivo primo. Ché il peggio succede dopo. Una volta tagliati a raso gli alberi, il terreno viene drenato per la costruzione di canali di trasporto dei tronchi. Nonostante sia vietato, la biomassa residua viene rimossa col fuoco. Gli incendi servono per diminuire l'acidità del terreno, concimano ed eliminano potenziali parassiti. È in quest'ultima fase che vengono rilasciati i gas serra in una quantità stimata all'anno di 1,8 miliardi di tonnellate: il 4 per cento delle emissioni globali da meno dello 0,1 per cento delle terre emerse. Tanto da issare l'Indonesia al terzo posto tra i Paesi inquinanti dopo due colossi come Stati Uniti e Cina. E senza pagare dazio, perché è considerata una nazione in via di sviluppo e dunque non è obbligata a ridurre la quota di gas serra, secondo i dettami del protocollo di Kyoto.

Ma torniamo alla foresta. Una volta bruciata, è pronta per nuove coltivazioni. Il business vuole che le più convenienti siano quelle di palme da olio. La palma è una pianta generosa, il corrispettivo vegetale del maiale: non si butta niente. L'olio che se ne ricava ha i più svariati usi: entra nei prodotti alimentari, nei cosmetici. I suoi derivati sono ingredienti comuni nei foraggi compositi e vengono utilizzati da poco, sui larga scala, per i biocarburanti. Negli ultimi dieci anni l'uso di olio da palma, nel mondo, è aumentato del 75 per cento. Nell'Unione europea è raddoppiato fino a coprire il 13 per cento del totale. Per l'eterna legge della domanda e dell'offerta l'incentivo per i Paesi produttori è enorme. E così in Indonesia si procede a ritmi forzati: giù gli alberi, via agli incendi, sotto con le piantagioni. Bastano 4-5 anni per avere palme in produzione. Le esportazioni di olio sono cresciute del 244 per cento dal 2000 ad oggi. Stime prudenziali vogliono che la richiesta di olio da palma raddoppierà entro il 2030 e triplicherà entro il 2050. Ammonisce Nichola Stern, ex vicepresidente della Banca mondiale: «La domanda aumenta e le riserve di carbonio delle torbiere indonesiane precipitano. Ciò che stiamo facendo oggi stende un'ombra che oscura il nostro futuro.

Le politiche ambientali devono incentrarsi sui rischi dello sviluppo economico e andare oltre quei cambiamenti marginali che sono diventati il pane quotidiano degli economisti». Tradotto: non bastano soluzioni soft, bisogna procedere con l'accetta (se il termine, nel contesto, non stride...) per ridurre i gas. Paradosso vuole che l'olio di palma fosse stato salutato, agli esordi, come un toccasana per il clima perché, nella versione biocarburante, inquina meno dei combustibili fossili derivati dal petrolio. Utilizzandolo, le aziende hanno diritto ai certificati verdi dell'Unione europea. Non si era tenuto conto dei danni procurati all'origine. Un rapporto dell'Epea (prestigioso istituto internazionale di Amburgo) calcola che, in un periodo temporale di 100 anni, la produzione di biodiesel da olio di palma tratto da una piantagione su torbiera, emette una quantità di anidride carbonica cinque volte superiore di quella delle normali benzine. Ne è consapevole Fabrizio Fabbri, funzionario per l'ambiente della rappresentanza permanente dell'Italia all'Unione europea: «Proprio per questi motivi da tempo ho chiesto di togliere l'olio di palma dal novero dei prodotti che danno diritto ai certificati verdi e di stabilire criteri di sostenibilità ambientale per ogni tipo di produzione». La politica cerca rimedi. Greenpeace agisce. E lo fa in un momento cruciale.

Dal 3 al 14 dicembre 2007
si terrà proprio a Bali, in Indonesia, il vertice mondiale sul clima per discutere la seconda fase del Protocollo di Kyoto. Ottima occasione per lanciare un allarme dove la battaglia è cruciale. Individuato nella provincia di Riau il luogo dove più copiosi sono gli incendi della torbiera (e dove esiste la più alta concentrazione di carbonio immagazzinato mai riscontrata al mondo), i suoi attivisti hanno impiantato nell'area un Campo di resistenza forestale. Azioni spettacolari e indagini in loco. Oltre ad abbordaggi di navi che portano in Europa l'olio, come è successo ad esempio questa settimana a Rotterdam. Il tutto ha anche prodotto un rapporto scientifico, dal titolo "Come ti friggo il clima" in cui punta l'indice contro la «ristretta squadra di giocatori molto potenti che controllano una grossa fetta del mercato».

Anzitutto la Cargill, la più grande società privata del mondo, poi la Adm-Kuok-Wilmar, gigante dei biocarburanti, infine la Synergy Drive, società controllata dal governo malese in grande espansione e che minaccia il primato delle altre due. Il rapporto di Greenpeace si concentra anche sui big dell'agroalimentare che usano l'olio di palma indonesiano per prodotti di largo consumo disponibili negli scaffali dei supermercati: Unilevel (margarina Flora), KitKat, Pringles, Philadeplhia, Gilette, Burger King, McCain, per dire delle più note. La richiesta è semplice: comprate altrove la materia prima e badate non sia a danno del pianeta. Poi la piattaforma che sarà presentata al vertice sul clima: fermare la deforestazione in tutto il mondo; stabilire una moratoria sulla conversione agricola delle torbiere; ripristinare le torbiere indonesiane degradate. Risparmio totale: quattro miliardi circa di anidride carbonica l'anno. Non è risolutivo. Però permette al paziente Terra di liberare un po' i polmoni

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