Il sole e il caldo non ci bastano mai, ma se l'inverno non arriva ci sentiamo truffati

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Finalmente nevica. Ci sono dieci gradi sottozero. Da Oriente, dal cuore dell'Eurasia, soffia un vento gelido. Nei prossimi giorni farà ancora più freddo. Tutto il paese è bianco. I primi giorni d'inverno le città rallentano il passo, perdono d'impeto. Debbono passare un paio di giorni prima che riacquistino il loro giusto ritmo. Ma qui, in campagna, le uniche cose a cambiare sono le forme e i colori. Il paesaggio diventa tranquillo e monocromatico. Gli uccellini si fermano sulla veranda alla ricerca di cibo. Il silenzio è così profondo che si sente il ticchettio dei loro piccoli becchi quando si cibano di grano e di lardo congelato, duro come un sasso. Sono gialli e rossi, sembrano scintille, piccole fiammelle. Abbiamo iniziato a lasciar loro del cibo e dovremo continuare a farlo fino alla fine dell'inverno. Stiamo ovviamente ingerendo nel ritmo della natura, ma non potrei più vivere senza la loro instabile presenza al di là del vetro della finestra. Da trent'anni non possiedo un televisore. Di giorno guardo gli uccelli, la sera il fuoco nel camino. Uno stato di cose che non ho mai desiderato cambiare.

Domani o dopodomani la temperatura certamente scenderà a meno 20. Non c'è niente di strano. A volte ha fatto anche meno 30 e l'unico problema era far partire la macchina la mattina. Il freddo respiro dell'Eurasia. Viviamo nelle sue spire per tre-quattro mesi all'anno. Nevica, il paesaggio diventa semplice e severo. Alla gente del Sud o dell'Ovest forse sembra tetro, morto, opprimente. Nero, bianco, gelo. Un gelo che emana persino dalla nostra iconografia natalizia: il tetto della stalla di Betlemme solitamente è coperto di neve. Il Dio appena nato, seminudo nella mangiatoria, suscita pietà piuttosto che gioia. Tutto attorno si stringono gli animali e lo riscaldano con il loro calore, con il loro respiro. È forse possibile trasportare senza scapito la storia sacra da una fascia climatica all'altra?
Nella nostra parte del continente non c'è niente di peggio però di un inverno privo di neve e di gelo. Finché non arriva l'inverno vero, con il suo corredo di neve e ghiaccio, viviamo nel fango e nelle tenebre. Come se fossimo appena arrancati sulla riva dell'oceano primordiale, come se fossimo emersi da chissà che paludi primigenie, ancora senza riuscire a deciderci se abbandonare o no il regno dei pesci e degli anfibi per quello dei mammiferi. Da queste parti l'inverno senza neve e gelo è un' esperienza traumatica. Il cielo e la terra hanno lo stesso colore livido, e sono così vicini l'uno all'altra che agli uomini non resta che strisciare. Senza luce, senza spazio, l'orizzonte è invisibile. Il gelo e la neve, per altri una calamità, per noi sono la redenzione.  
Scrivo queste parole e ascolto la radio. Dal resto d'Europa arrivano notizie drammatiche. Nessun aereo può partire da Francoforte. Meno dieci gradi in Scozia. Vienna e Parigi sotto la neve. In Inghilterra ne sono caduti 20 centimetri. Un'apocalisse. Ma un'apocalisse decisamente momentanea, perché la neve si scioglie subito, e il mercurio nei termometri ricomincia a salire. Noi però, almeno così spero, ce ne resteremo fra cumuli di neve. Al nostro temperamento si addice un ritmo delle stagioni ben definito, con un ventaglio delle temperature che raggiunge, a volte, i 60 gradi Celsius. Siamo mutevoli, instabili, soggiaciamo ai cambi di umore. Senza sosta, in modo inconscio, ci attendiamo cambiamenti, così come si attendono la fine di un inverno rigido, il sopraggiungere di una primavera euforica, un'estate torrida e inebriante, un malinconico autunno. Siamo figli del nostro clima. Il sole e il caldo sembrano non bastarci mai, ma se l'inverno non arriva ci sentiamo truffati.

Quando però è qui, quando si è ben ambientato, cominciamo a odiarlo. I più ricchi fuggono alle Seychelles, i più poveri si comprano lampadine a imitazione della luce solare e smettono di uscir di casa. Siamo scissi. Vorremmo essere figli della civiltà mediterranea, nipoti lontani della Grecia e di Roma, ma sulle nostre teste per lunghi mesi ululano i venti siberiani. Sì, siamo un popolo strano. La geografia ci imprigiona fra Oriente e Occidente, e le condizioni meteorologiche non ci consentono di conoscer pace, condannandoci a un eterno rimpianto per ciò che deve ancora arrivare.
Finisco di scrivere il 1 dicembre alle 23.08.  La Juventus a Poznan ha appena pareggiato con il Lech 1:1. Faceva meno 13, il campo da gioco era coperto di neve. Lo ammetto, facevo conto su una vittoria, mi sembrava che stavolta la meteorologia fosse dalla nostra parte. E invece era anche dalla parte degli italiani. È un po' come se fossimo stati traditi dal nostro stesso inverno.
traduzione di Laura Mincer