E' il caso di ricordare infatti che la cifra dell'American Style resta la praticità unita a una certa funzionalità (d'altronde non è un caso se il pragmatismo ha attecchito qui più che altrove). Ne è convinta Cathy Horin, autorevole critico di moda del New York Times, poco incline per sua indole agli encomi agli stilisti e famosa per la sua schiettezza. Osserva la giornalista: "Abbiamo visto molte buone idee distillate in un modo in cui gli americani sono molto abili e poi abbiamo percepito un ritorno ai bisogni primari della gente e dei designer stessi che scoprono una nuova sensibilità e guardano sempre più a Internet e ai social network per pensare in un'ottica globale e capire dove va la moda, oltre la passerella ma anche oltre le strade delle metropoli".
Sicuramente però tutto ciò fa della moda anche una metafora dello strapotere assunto dall'immagine, dall'ego e dalla celebrità nella civiltà americana come pure è stato felicemente osservato per esempio, in un film brillante e geniale come "Star system", una rilettura moderna, in un certo senso, del famoso "Falò delle vanità". Senza contare che Facebook con la sua dimensione di macro-vetrina sociale in rete riverbera l'identità un po' vanesia degli americani sovraesposti che guardano sempre di più a Hollywood e all'industria dello spettacolo e dell'intrattenimento come a una fucina di modelli culturali.
Insomma apparire prima di tutto. E la moda alimenta questi atteggiamenti di esibizionismo assoluto anche nella Grande Mela dove la maratona glamour (o glamathon come la chiamano i newyorkesi più acuti) di settembre dedicata alle collezioni per la primavera-estate 2011, si è appena conclusa con alcune note interessanti.
Fra le collezioni più applaudite ci sono quelle di Marc Jacobs e Rodarte. Quest'ultimo, molto seguito dagli stilisti europei più sensibili e creativi, piace ancora di più perché ha alleggerito le forme rivendicando un senso tipicamente americano di appartenenza delle proprie radici (nel caso delle sorelle Mulleavy, designer di Rodarte, la California, tema di punta delle sfilate di questa settimana) e l'altra perché è un riepilogo di tutte le tendenze principali viste in questi giorni in passerella: dai volumi oversize all'androgino attutito e stemperato, dai grafismi all'esotismo a tratti tribale, passando per le micro borse, gli abiti lunghi anche per il giorno, gli hot pants, gli shorts e le zeppe, fino alle trasparenze e agli effetti vestaglia e grembiule (un po' come il kimono e il wrap dress o vestaglietta di Diane Von Furstenberg, visti anche da Reed Krakoff).
Il tutto con un'ispirazione spiccata al nostro, indimenticabile, Walter Albini, celebrato in una bella monografia di Stefano Tonchi e Maria Luisa Frisa presentata in queste giornate frenetiche nella Grande Mela.
La collezione di Marc Jacobs ha portato in passerella una suggestiva galleria di bambole pop, rétro tipicamente americane e molto sofisticate: Marisa Berenson, Donna Jordan, Loulou de la Falaise, Pat Cleveland, Jodie Foster nel ruolo di Iris in "Taxy driver" di Scorsese, citata con edonismo didascalico, e non ultima l'amica e musa Maripol, protagonista di una monografia edita da Damiani che viene lanciata in questi giorni a New York in omaggio alla stylist considerata l'artefice del look di Madonna in "Like a virgin".
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La vena psichedelica dello stilista catalano, legato a doppio filo all'Italia, in certi accenti e soprattutto nelle lavorazioni ipervisive e ricercate, non appare troppo lontana da Diesel Black Gold, la linea ammiraglia di Diesel disegnata da Sophia Kokosalaki che reinventa la California hippy e i paesaggi di "Zabriskie Point". "Le stampe le ho mutuate dalle opere di un artista scomparso, Vali Myers, a cui mi ero affezionata", ha detto la stilista greca nel backstage.
Anche qui borse piccole con un effetto un po' wild e vintage e tanti jeans scampanati che sembrano stinti nel thé e che hanno perso il loro originario blu indaco che invece torna nell'utility workear, fatto di abiti e capi da lavoro, rivissuti con note cool e firmati G-Star Raw.
Il brand olandese si rifà ai tuareg, ai soldati della Legione straniera, e a un inedito Lawrence d'Arabia che sembra reduce da un concerto rap: in fondo sia i rapper che i guerriei del deserto portano ampi cappucci. L'effetto finale è gradevole, incisivo e rassicurante e porta in pedana un total look in denim che ha i suoi capisaldi nei tagli design di certi corpetti anni'90 e nei volumi sperimentali un po' rilassati o "loose"- come dicono i modaioli- dei jeans da esploratrice, da portare con tacchi a spillo.
La leggerezza è un motivo ricorrente di queste sfilate: appartiene perfino a Calvin Klein dove lo stilista Francisco Costa la fonde con l'innocenza di fanciulle leggiadre dalla sensualità acerba come le muse del fotografo David Hamilton ma con un senso spiccato per la geometria. Il lato soft delle donne vere piace anche a Thakoon Panichgul o semplicemente Thakoon che firma una raffinata collezione fatta di stampe materasso e di abiti lievi come un soffio, molto lingerie e garbatamente trasparenti. Un boudoir postmoderno e romantico che somiglia molto a quello, più minimale e decostruito, di Narciso Rodriguez, amante di tuniche longuette tagliate in sbieco di fluttuante charmeuse (un tipo di raso che si usa per le sottovesti e le vestaglie da notte più sontuose) e di piccole applicazioni in 3D.
Tutto è estremamente fluido e senza peso come nei modelli di Diane Von Furstenberg che inaugura un nuovo corso complice il suo nuovo braccio destro, il bravissimo Yvan Mispelaere, uno stilista che si è fatto le ossa da Féraud, Chloé e Valentino guadagnandosi una ridda di consensi dagli addetti ai lavori. Il risultato di questa coppia, apparentemente già affiatata, è un'overdose di onde e grafismi di gusto geometrico, a tratti ellenizzante, ma leggeri, ricercati, tribali legati a una femminilità pagana da "dea", la parola magica che ha dato ispirazione alla collezione.
Sono dive di oggi, perennemente in crociera o in vacanza agli Hamptons le signore di Michael Kors che parla di solarità interiore e fa sfilare le sue modelle, tutte supertop, sulle languide note della romantica "Here comes the sun".
Molto dive, ma in un modo personalissimo, estremamente slow e morbido, anche le donne di Phillip Lim che a Park Avenue ha mandato in scena, fra sculture metafisiche alla De Chirico, un guardaroba estivo degno di nota e ricco di trasparenze aggraziate: mini di nappa leggerissima traforata al laser, gilet gioiello incrociati e preziosamente ricamati di paillettes opache color nude e trench interamente realizzati in impalpabile pizzo chantilly, uno dei capi più belli visti sulla sua passerella e in generale anche in questi giorni di sfilate accanto a certi abiti da sera, romantici ed eterei, firmati Ralph Lauren.
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Il tutto a conferma di una generalizzata percezione: New York vuole esserci sempre di più sotto i riflettori della moda. E di stagione in stagione questa pulsione, che è già evidente nella grande vitalità creativa e nel fermento circolanti sui set dei servizi fotografici patinati e nel gran giro di modelle che affollano la città, appare sempre più forte anche nei brand più di tendenza. Nati e cresciuti ormai all'ombra dei titani di un tempo, privi ormai di qualunque connotazione geografica, se non nell'estetica almeno negli orizzonti del loro business.