Se da San Francisco si prende il Bay Bridge e poi si continua per un altro miglio lungo la "580", si arriva a Emeryville, una ordinata e linda cittadina a metà strada tra Berkeley e Oakland. "Pixar", si legge sull'insegna di ferro montata sopra il portone di mattoni.
E la prima impressione è che il campus dei Pixar Animation Studios non sia poi molto diverso da quello di decine di altre aziende della Bay Area e della Silicon Valley che stanno riconfigurando il nostro futuro. Ma come si lascia l'ampio parcheggio e ci si incammina verso l'edificio principale, le sorprese iniziano e occorre raggirare l'ostacolo di una lampada di fiberglass e acciaio alta sei metri. È una riproduzione di "Luxo Jr.", dal titolo dello short film con cui la Pixar lasciò a bocca aperta una convention di esperti di computer graphics nel lontano 1986.
Gli animatori che l'avevano disegnato si erano preparati a venire assaliti di domande su gigabytes e algoritmi, ma dopo avere visto due palloni che si rincorrevano e si sgridavano e si scambiavano occhiate di affetto rincorrendo una terza palla che rimbalzava, la domanda di tutti era un'altra: ma invece la lampada più grande che cosa rappresentava? La mamma o il papà? Per la prima volta, la computer graphics era stata utilizzata per esprimere dei sentimenti e trasmettere emozioni. E "Luxo Jr." è rimasto il logo di apertura di ogni film di Pixar Animation Studios, un omaggio alle origini di una società che non ha mai sbagliato un colpo.
Da "Toy Story", il primo lungometraggio realizzato interamente con i computer nel 1995, a "Gli Incredibili", da "Alla ricerca di Nemo" ad "Up" e a "Cars 2", l'ultimo, i 12 film prodotti e concepiti sinora sono stati tutti un successo, generando 7 miliardi di botteghino a cui aggiungere quelli ricavati con i dvd e il merchandising. E non ci sono solo i dollari. Con 35 nomination e nove Oscar, quel nome è diventato una garanzia, un simbolo di qualità, di originalità, di immaginazione, di coraggio, di scene e personaggi realistici quanto fantastici. E di grandi emozioni per i più piccoli, per i loro genitori e anche per i nonni.
I Pixar Animation Studios hanno saputo crearsi un'identità e una cultura. E quando, appunto, ci si lascia Luxo alle spalle e si varca il portone del grande atrio del building principale, ci vuole poco per capire che questi risultati sono il prodotto di un ambiente di lavoro perlomeno insolito. Negli angoli, sui muri, o a pendere dai soffitti, ci sono riproduzioni di Woody e di Buzz Lightyear, il cowboy e lo Space Ranger di "Toy Story"; di Luigi, una vecchia 500 gialla con caratteristiche antropomorfiche; della gloriosa famiglia degli "Incredibili". Ci sono ponti sospesi che disegnatori, animatori e fisici attraversano a bordo di monopattini.
Una mensa che offre libero accesso a gelati e snack salutisti. Poi ci sono gli uffici veri e propri, che ogni impiegato è libero di decorare come gli pare: casette uscite da una favola dei fratelli Grimm, graffiti, chitarre, batterie, pirati, sculture in Lego, manifesti. "Pigia qui", propone Andrew Stanton, il regista che con "Alla ricerca di Nemo" ci ha tenuto in ansia per due ore dietro le sorti di un pesciolino rosso, e che con "Wall-E" ha rievocato il miglior Chaplin. Pigiamo un pulsante nacosto dentro un busto di Shakespeare. E la libreria alle sue spalle si apre su una sala con tanto di blackjack e una collezione di scotch.
"Che ne pensi?", chiede con aria birichina. Stanton è abituato a settimane di 70 ore lavorative e a nottate insonni, come i suoi 1.200 colleghi che lavorano qui al campus. Ci sono animatori, disegnatori, sceneggiatori, maghi del software, quelli che si prendono cura della "rendering farm" dove solo per trasformare in immagini gli algoritmi di "Cars 2" hanno dovuto mettere al lavoro 14.500 processori. Ma mentre la tecnologia consente immagini sempre più fotorealistiche e l'unico vero limite, ormai, è l'immaginazione degli artisti, il fine resta quello delle origini: raccontare in immagini storie che generano emozioni. Si pensi al dolore sul volto di Woody quando Andy lo snobba. O agli occhi a binocolo di Wall-E con i quali vede un mondo fatto di spazzatura e di desolazione. O, in "Up", alla commovente storia d'amore di Carl, che per rendere omaggio alla moglie scomparsa parte per le mitiche Paradise Falls attaccando la sua casetta a 10 mila palloncini.
Oltre agli arcirivali della Dreamworks anche Fox, Warner, Sony e gli altri scoprono il lucroso business dell'animazione, ma Pixar Animation Studios continua a puntare sulla creatività dei suoi impiegati, offrendo loro gli strumenti più disparati per coccolare il fisico e la mente. C'è la Pixar University, dove si possono seguire corsi di pittura o di scherma. C'è una piscina all'aperto, un campo di calcio e due di volley su sabbia. Ci sono tavoli da ping-pong e da biliardo. C'è una "Massage room" e una "Cardio room", la stanza dei pesi e quella riservata alla meditazione. Manca solo la stanza della felicità. Ma non serve, perché tutti sembrano contentissimi di lavorare qui. Tanto che a un visitatore occasionale sorge il dubbio di trovarsi dentro una fiction. Poi però si incontra John Lasseter, e il sospetto svapora.
Lasseter è l'anima della società, il suo faro creativo. Ha 54 anni, ma da dentro le sue camicie hawaiiane che sono diventate la sua uniforme ("Quante ne ho? Temo più di 400", sorride) vede il mondo con l'entusiasmo e il senso di stupore di un bambino. E ne è orgoglioso. "Noi animatori siamo tutti, in fondo, come bambini: abbiamo trovato un'industria dove non è necessario crescere".
Quando era un teenager anche secondo l'anagrafe, Lasseter sognava di fare l'animatore, che in quei giorni voleva dire andare a lavorare alla Disney. E ci riuscì, ma risultò presto incompatibile perché si era intestardito a voler disegnare le immagini con i computer. E così, nel 1984, accetta di andare invece a lavorare alla Lucasfilm, dove George Lucas aveva aperto una divisione che si occupava di computer graphics (la stessa che dopo un po' fu ceduta all'amico Steve Jobs, messo alla porta dalla sua Apple) per una decina di milioni di dollari. Vent'anni dopo la Disney, che sino ad allora aveva distribuito i film della Pixar, l'ha comprata, valutandola 7 miliardi e mezzo di dollari. E Lasseter è diventato un uomo molto ricco, oltre ad avere acquisito l'insolito titolo di "Chief Creative Officer", con delega non solo su Pixar ma anche su tutti i film animati della Disney, sui parchi di divertimento, sugli alberghi, sul merchandising. "Ho cinque lavori a tempo pieno, oltre ad avere cinque figli, una moglie e un vigneto", continua lui: "Ma mi diverto talmente tanto che non mi sembra vero che mi paghino pure". Tra massaggi shiatsu e tornei di calcio balilla sembra si divertano tutti, alla Pixar.
Ma con "Cars 2", diretto dallo stesso Lasseter, hanno incassato - oltre che 600 milioni di dollari - anche la prima ondata di critiche negative. "Forse la società si è stufata di sfornare capolavori e ha deciso di vivacchiare per un po'", ha scritto il "New York Times". Pixar Animation Studios è stata accusata anche di avere raccontato sinora solo protagonisti maschi. Ed è per questo motivo che il prossimo film, "Brave", avrà al centro una giovane e fiera principessa scozzese con i capelli rosso fuoco, brava con arco e freccia e un po' testarda. Insomma, questo è un business che fa parte dell'impero Disney e che ha l'ambizione di passare da uno a tre film ogni due anni. Cresce la pressione, la concorrenza anche. Ma la missione dei tempi di Luxo Jr. e della sua mamma, che poi forse era il suo papà, resta la stessa. "Puoi fare azione, commedia, amore, ma ciò che conta di più, alla fine, è partire sempre dalle emozioni", conclude Lasseter: "Pixar è lo standard del mondo dell'animazione digitale, ma a tenere lo spettatore immobile mentre scorrono i titoli di coda non è la tecnologia. È quello che, grazie a lei, sei riuscito a fare".