Un libro sostiene che i polacchi non fecero abbastanza per gli ebrei. E si scatena l'isteria

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Il libro non uscirà prima di marzo, ma già da oggi se ne parla come del "maggiore evento editoriale del 2011". Ne scrivono i giornali. In televisione ne discutono giornalisti e uomini politici. Basta digitare in un motore di ricerca la prima parola del titolo e appaiono centinaia, o forse migliaia di siti. I forum in Internet ribollono di commenti. Alcuni pieni di indignazione, di rabbia, di odio nei confronti dell'autore. Lo chiamano traditore, venduto, bugiardo, furfante, schiavo di mammona. Gli internauti stizziti si promettono a vicenda che non prenderanno mai il libro in mano, e che certamente non lo compreranno, per non far guadagnare quel furfante rognoso. È addirittura sorto un movimento per boicottare la casa editrice che pubblicherà il volume. Ci sono appelli a passare alle mani, a presentare denunce al potere giudiziario.
Com'è ovvio, ci sono anche voci discordanti, che hanno generalmente un tono diverso. Più tranquillo, privo di disprezzo e di aggressività. I più ragionevoli propongono di attendere che il libro sia pubblicato, di leggerlo e, solo dopo, eventualmente, di gettarsi fango addosso. Anche in questo campo alcuni affermano che non compreranno il libro, perché vi è descritta una verità nota e palese, e dunque è un peccato sprecare del denaro. Le voci che si richiamano alla misura e alla ragionevolezza sembrano essere però in netta minoranza.


Ora mi chiederete che libro sia. È un libro di storia. E di che tratta? Ovviamente di polacchi e di ebrei. Lo ha scritto Jan Tomasz Gross, sociologo e storico polacco, da decenni residente negli Stati Uniti. Il titolo è "Messi d'oro". Si riferisce al procedimento portato avanti dai contadini polacchi dei villaggi situati nei dintorni dei campi di sterminio tedeschi in Polonia orientale: Sobibór e Belzec, ma soprattutto Treblinka. I tedeschi, in questi campi relativamente primitivi, se la cavavano ancora senza crematori e bruciavano i cadaveri dei gassati all'aria aperta, su grandi strutture costruite con delle rotaie. Le ceneri venivano quindi sepolte in fosse non molto profonde. Dopo un anno o due i campi vennero liquidati, ne furono cancellate le tracce e dove essi sorgevano furono piantati dei boschi. A guerra finita, i contadini locali presero a scavare i terreni pieni di ceneri alla ricerca di oro e pietre preziose sfuggiti all'occhio vigile dei carnefici tedeschi. Scavavano, setacciavano la sabbia, così come un tempo i cercatori d'oro in California. E qualcosa trovavano. I villaggi conobbero così un certo progresso culturale. Le case di legno vennero sostituite con case in muratura. Invece dei tetti di paglia apparvero quelli in lamiera. Ma quello di cui voglio scrivere qui non sono i contadini polacchi e le ceneri ebraiche, benché sia un tema enorme.


Trovo seducente l'inestricabile intreccio ebraico-polacco del mio paese: un nodo di sentimenti contrastanti, di pietà, di ammirazione, di rabbia, di paure, di fascinazione e di odio. Credo che non esista un altro popolo a cui siamo tanto strettamente legati. Né i tedeschi né i russi suscitano emozioni così profonde e così profondamente celate. Vi è in ciò un segno del fato. Da molto tempo in Polonia non ci sono più ebrei, ma in qualche modo misterioso continuano a essere parte del nostro destino. Sono parte di noi stessi, della nostra anima, della nostra identità, del nostro inconscio. Abbiamo vissuto insieme per centinaia di anni, dal tempo in cui roghi e pogrom li avevano scacciati dal resto d'Europa. Hanno trovato riparo in Polonia, ma vi hanno trovato anche lo sterminio e la tomba. Nel piano tedesco c'era qualcosa di diabolico. Scegliendo la Polonia come luogo dello sterminio i tedeschi si liberavano delle ceneri, si liberavano della colpa, si rendevano puri. Abbiamo vissuto con gli ebrei per centinaia d'anni e ora viviamo con le loro ceneri, con i loro spiriti, e così sarà fino alla fine del mondo. Non è escluso che non saremo mai in grado di darcene una ragione. Se il mio Paese nel mondo evoca qualcosa, è anzitutto Auschwitz. Non siamo stati neanche capaci di lamentare la loro morte. È un popolo strano il mio: il 1 di novembre, per il giorno dei morti, in centinaia di migliaia vanno alle tombe dei propri cari, accendono candele. Sui campi di ceneri ebraiche non ci va quasi nessuno.


Non siamo capaci di vivere con la nostra memoria. Ci sembra troppo pesante da sollevare. Un semplice libro che ci dice che non siamo così innocenti come ci piacerebbe essere risveglia dei demoni. Risveglia paura e isteria. Come se i morti non facessero altro che sollevarsi dalle tombe, entrare nella nostra vita. E così continuerà a essere finché veramente non sapremo piangerli, finché non li sapremo seppellire così come seppelliamo i nostri morti.