La vittoria sembrava vicina. Il presidente Obama pareva essersi schierato finalmente dalla parte della piazza. Il fronte dell'opposizione, e perfino i Fratelli musulmani che inizialmente avevano categoricamente respinto l'ipotesi, aveva metabolizzato l'idea che Omar Suleiman, il braccio destro di Hosni Mubarak, prendesse in mano le redini del Paese e lo guidasse verso libere elezioni.
La piazza aspettava soltanto l'annuncio finale: la dipartita del tiranno. Ma domenica, mentre il traffico riprendeva concitatamente a intasare le arterie della capitale e gli inservienti spazzavano via dai loro negozi due settimane di battaglia urbana, è diventato chiaro che lui non se ne andrà, e che i suoi alleati di sempre - militari e Stati Uniti - non lo costringeranno a un'umiliante dipartita.
Ma allora chi ha vinto? La rivoluzione o il regime? Quei giovani volti della piazza che ieri per la prima volta sono stati pubblicati su alcuni giornali indipendenti sono morti invano?
«Senza questi ragazzi il Paese non sarebbe mai stato capace di avviare il cambiamento», spiega Ayman Nour, il presidente del partito liberale di opposizione El Ghad: «Le concessioni fino ad oggi offerte dal regime erano impensabili solo due settimane fa».
Il nuovo governo è saldamente nella mani di Omar Suleiman. Mubarak e suo figlio Gamal non si candideranno alle elezioni di settembre; la direzione del Partito Democratico Nazionale (quello di governo) è stata sciolta e il suo odiato segretario generale rimpiazzato con il moderato medico Hosam Badrawi; sono stati messi sotto accusa (e i loro beni congelati) uomini come Ahmed Ezz, il re dell'acciaio, uno dei confidenti di Gamal Mubarak e simbolo della corruzione egiziana.
Nella riunione tra Suleiman e le forze dell'opposizione di ieri poi è stato raggiunto un primo consenso sulla formazione di un comitato per lo studio delle modifiche costituzionali per permettere a più candidati di presentarsi in settembre; è stata promessa la liberazione dei prigionieri politici ed eventualmente, con l'ambigua clausola «se le condizioni di sicurezza del Paese lo permetteranno» l'eliminazione dello stato di emergenza in vigore da quando Mubarak è asceso al potere che per trent'anni ha conferito alle forze di polizia poteri straordinari con cui reprimere il dissenso.
Per i ragazzi del 25 gennaio non è abbastanza. Giurano di non lasciare piazza Tahrir finché la loro richiesta principale non verrà soddisfatta. «Ancora non ci siamo», spiega Wael Abbas, uno dei blogger leader della protesta: «Noi restiamo in piazza fin quando Mubarak non se ne andrà». La piazza si è trasformata in un accampamento permanente, con teloni di plastica a protezione della pioggia e del sole, bancarelle che vendono cibo e sigarette, e perfino un'edicola improvvisata.
Domenica qui si è celebrata la messa cristiana copta accanto alla tradizionale preghiera islamica. E con un'improvvisa vena artistica, i manifestanti hanno usato le pietre lanciate da polizia e delinquenti settimana scorsa per comporre scritte anti-Mubarak. Altri ancora, armati di pennelli e vernice, dipingevano sui bambini i colori della bandiera nazionale. E per la prima volta in due settimane, nel pomeriggio, dopo il lavoro, tra la folla di centinaia di migliaia di persone, sono accorse, tra gli applausi della folla, anche giovane donne su tacchi neri e jeans attillati, segno che il pericolo è finito, che la piazza è un luogo sicuro e ora perfino festivo, e che l'odio per il regime è più diffuso di quanto il governo non voglia ammettere.
Sono sparite completamente le orde di manifestanti in favore di Mubarak, chiaro segno che fossero state inviate dal partito: ora è impossibile trovare qualcuno in strada che si dica in favore del dittatore. Non ci sono nemmeno più i posti di blocco di quartiere, e i delinquenti armati fino ai denti. Al contrario, gli egiziani sono tutti sorrisi e scuse verso gli stranieri. Ci sono perfino passanti che offrono soldi in segno di risarcimento per la violenza subita la settimana scorsa.
Ma secondo voci vicine a Omar Suleiman, il governo, di concerto con i leader occidentali, ha preso la decisione di portare avanti solo cambiamenti incrementali con cui lentamente convincere la piazza a tornare a casa nei prossimi giorni. Intanto le fa il vuoto intorno. Gli uffici e le scuole hanno riaperto; sono apparse lunghe file di fronte ai bancomat, che hanno ripreso a funzionare; i ragazzi giocano di nuovo a pallone nelle aiuole di Zamalek; i ragazzi dei take away hanno rimesso in azione i motorini; perfino i ristoranti turistici dei grandi battelli sul Nilo hanno riaperto i battenti, seppure solo per qualche ora del giorno. E oggi è stato annunciato che la Borsa potrebbe riaprire mercoledì. Tahrir appare più che mai l'isola dell'utopia immersa nel Nilo del cinismo di stato.
Intanto, a dispetto delle promesse sulla liberazione dei prigionieri politici, restano ancora in carcere diversi attivisti catturati negli ultimi giorni. Entro il pomeriggio potrebbe essere liberato Wael Ghuneim, responsabile marketing per il Medio Oriente e Nord Africa di Google, arrestato lo scorso 28 gennaio, dopo che aveva preso parte alle proteste. Non si sa nulla invece del settantenne Ahmed Seif El-Islam Hamad, il responsabile del centro Isham Mubarak per i diritti umani, e di alcuni suoi collaboratori arrestati durante l'assalto della loro sede venerdì scorso da parte della polizia segreta. Ed è questa la prova, secondo i manifestanti che temono ora la vendetta della polizia, che il governo non è sincero nel portare avanti il cambiamento.
Il rischio maggiore però è una divisione insanabile tra i rappresentanti dell'opposizione tradizionale e i ragazzi del 25 gennaio, di cui sei hanno preso parte alle consultazioni di ieri. I primi sono disposti a un accordo veloce col governo, i secondi non solo vogliono vedere partire Mubarak ma anche crollare l'intero regime, un'opzione sempre meno probabile.
Dalla loro parte è rimasto il premio Nobel per la pace Mohamed El Baradei che non è stato invitato alle discussioni di ieri e continua a mantenere la sua linea di opposizione ad ogni compromesso che non includa la dipartita del dittatore, coem ha confermato al telefono il fratello Ali. «Questa sarà una crisi lunga, e il tempo purtroppo è dalla parte del regime», conclude Isham Kassam, uno degli attivisti ed editori in favore della democrazia più conosciuti del Paese: «Più giorni passano è più è probabile che Mubarak resterà al suo posto fino a settembre».
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7 febbraio, 2011La rivolta è finita e al Cairo quasi tutto ha ripreso a funzionare: dai bancomat ai battelli turistici sul Nilo. La piazza ha ottenuto molto: Mubarak via a settembre, il figlio ed erede Gamal fuori gioco, inizio della democratizzazione. Ma i manifestanti sono delusi, perché l'impianto del vecchio regime non è crollato
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