Un giovane serbo, che ha già combattuto per soldi in Israele e Afghanistan. Ora, reclutato da Gheddafi contro i ribelli, chiama un vecchio amico che vive a Milano. E gli propone: «Vieni, qui si guadagna molto più di quello che ti puoi immaginare...»

Ciao fratello mio caro! Quanto tempo! Sono io, Andrej...". A Milano è notte fonda e stavo dormendo da un pezzo. Un sonno profondo, interrotto dal suono del telefono. Sono abituato alle chiamate in orari improbabili: spesso è mia nonna, o mio padre o qualche vecchio amico da città lontane della Russia. Ma quel prefisso straniero non lo conoscevo proprio. E quella voce sembrava lontana, come se arrivasse da un'altra vita: un sogno. O forse un incubo. Ho cercato di svegliarmi e rimettere in moto il cervello. In quella lunga pausa, ho sentito un respiro pesante dall'altra parte, come se il mio interlocutore si stesse riprendendo dopo una dura corsa. Poi l'ho riconosciuto: "Andrej! Vecchio bandito, quanto tempo è passato! Come stai?".

"Ho bisogno di te, Nicolai. C'è da guadagnare tanti soldi, più di quelli che puoi immaginare. Ma ci serve un tiratore scelto, uno bravo come te".
"Stai scherzando, Andrej? Sei sbarcato sulla Luna con i tuoi compagni?!".
"Ma non la guardi la tv? Non hai visto cosa sta succedendo in Libia? Sono a Tripoli, lavoro per il figlio di Gheddafi...".

Sì, quella voce veniva da un altro mondo. Ricordo bene Andrej, un ragazzo serbo. Ci siamo conosciuti a Gaza, quando facevamo lavori simili. Lui era un contractor, con alle spalle le guerre della Jugoslavia: un soldato privato, eufemismo per evitare il termine politicamente scorretto di mercenario. Era stato assoldato da una piccola società ungherese, che riforniva di reduci dell'Est i colossi del settore. Io ero già considerato "un professionista" e l'esperienza dei due anni in Cecenia con i commandos dell'Armata rossa mi aveva aperto le porte di un'agenzia importante, uno dei big mondiali della sicurezza armata. Lui era più anziano, una decina di anni più di me e ne aveva viste tante. Prima l'esercito di Milosevic, poi la Legione straniera francese, lo definivano "un operatore di medio livello": uno di quelli che cercano soprattutto l'avventura.

Ci siamo conosciuti a Gaza. Lui scortava un importante industriale tedesco a cui la mia agenzia, in accordo con le autorità palestinesi e quelle israeliane, aveva organizzato un incontro con alcuni dirigenti di Hamas. Di cosa dovessero discutere non era affare né mio, né suo. Mentre aspettavamo che il vertice finisse ci siamo parlati, scambiandoci i racconti tipici dei veterani in un esperanto di inglese e lingue slave. Andrej voleva entrare in un campo d'addestramento israeliano, una sorta di master che fa decollare il curriculum dei contractor. Io avevo degli amici che potevano aiutarlo. Da allora abbiamo cominciato a scriverci e sentirci, come si fa tra commilitoni più che tra colleghi: gente che per lavoro rischia la vita e può arrivare ad uccidere. Ci siamo incontrati più volte in Afghanistan: io facevo l'istruttore dell'esercito di Karzai; lui era stato ingaggiato da una società americana che lavorava per il governo di Washington. Assieme alla polizia di Kabul dava la caccia ai trafficanti di eroina, quelli che finanziano i terroristi talebani: metteva il suo fucile al servizio della causa dell'Occidente, anche se a pagamento.

Poi le nostre strade si sono divise. Io sono andato in Iraq, a fare il bodyguard degli imprenditori stranieri, e mi sono beccato una pallottola in una gamba: ho dovuto affrontare mesi di ospedale e di riabilitazione. Non ci siamo più incrociati, ma Andrej mi scriveva spesso: ero nella sua mailing list per gli auguri nelle feste comandate o per le condoglianze per la morte di qualche collega. Sapevo che aveva cambiato parecchie agenzie e poi era riuscito a fare il salto: lo avevano accettato in una delle grandi compagnie statunitensi, aveva sposato una ragazza americana e si era trasferito negli States. Ma di quella vita meno turbolenta si era stufato in fretta: aveva divorziato, era tornato in Serbia e aveva aperto la sua "azienda di sicurezza". Ogni tanto mi offriva un posto: "Anche se non puoi stare per strada, saresti prezioso pure in ufficio...".

Io gli ho sempre detto di no. All'inizio perché mi sentivo ancora debole, la ferita mi limitava i movimenti. Poi perché ho scoperto di essere diventato una persona diversa. Ho rivisto la mia vita, sentendomi straniero. L'infanzia in un paese totalitario come l'Urss, la povertà, il carcere, la guerra civile che ha diviso la Moldavia facendomi diventare cittadino della Transnistria, i due anni di combattimenti in Cecenia come cecchino delle forze speciali di Mosca e poi il lavoro di mercenario. Sì, mercenario: lo dico senza giri di parole. Io ho rivisto come il crollo del mondo di quando ero bambino, la disillusione per gli slogan del socialismo reale, mi avessero lasciato dentro un deserto. E un Kalashinikov tra le mani come unico strumento per imporre i miei sogni.

Di gente come me e lui ne ho incontrata tanta. Conoscevano solo la guerra, non riuscivano a immaginare un'esistenza pacifica. Come il protagonista di "Hurt Locker", non sapevano farne a meno. Erano passati dalla Bosnia, dal Kosovo, dalla Cecenia agli ingaggi per le agenzie private, che li pagavano per combattere in Iraq, in Georgia e in Afghanistan. Alcuni erano anche peggio: esaltati, nichilisti che vedevano nell'uccidere e nel rischiare la morte l'unica dimensione. Anarchici in brutta copia, che sfogavano nelle armi le loro frustrazioni e la loro follia. E se gli domandavi "perché lo fai" ti rispondevano con un silenzio che dava la misura del loro vuoto interiore. Per questo sono convinto che il mestiere del mercenario non è una professione, ma una condizione mentale che nasce da un degrado abissale. Persone che vanno contro le leggi umane fondamentali e fanno della forza un concetto universale: pirati insani, che amano la distruzione. Non sono semplici assassini per soldi: è gente che ha attraversato ogni limite, fino a ritrovarsi nell'inferno.

Oggi questi prigionieri del male sono diventati gli ingranaggi di un'industria florida e spietata, che sfrutta la loro maledizione per arricchirsi: aziende che offrono un percorso legale alla marcia della morte. Sono i nuovi signori della guerra, quelli a cui gli Usa e l'Occidente hanno subappaltato le battaglie più sporche in Iraq e in Afghanistan. Alcuni si limitano a fornire servizi di scorta, proteggendo diplomatici o imprenditori senza badare a quanti muoiano perché il viaggio sia sicuro. Altri invece offrono brigate armate di tutto punto: hanno tank, elicotteri e persino bombardieri. E tutti si nutrono di guerra.

Sono soldati che non richiedono ideologie: basta pagarli. Non hanno bandiere, spesso i contractor sono vecchi nemici: in Iraq ho visto lottare fianco a fianco serbi e croati che dieci anni prima si erano sparati addosso. E quando muoiono non c'è bisogno di funerali solenni: i più fortunati, quelli ingaggiati dai big, hanno almeno un'assicurazione che li farà ricordare da figli sperduti o da vecchie madri; per molti non ci sarà nemmeno una croce sulla tomba.

E' stata anche la mia vita. Una corsa dalle barricate della Trasnistria alle macerie della Cecenia, dai campi di tiro in Israele alle basi americane in Afghanistan fino al capolinea nelle strade dell'Iraq: migliaia di proiettili, centinaia di volti spesso cancellati da un'esplosione e talmente tante storie da riempire romanzi fino alla vecchiaia. Ma sono stato fortunato, molto fortunato: sono riuscito a rinascere. Forse l'ho fatto insieme a mia figlia; quando ho visto lei venire alla luce, anch'io ho ricominciato a esistere. Ho riscoperto i valori della mia infanzia: il senso civico, il rispetto, l'amore per la vita e per le cose belle. Ho persino trovato una patria, qui in Italia, nel Paese disprezzato da tanti suoi cittadini. Perché qui ho conosciuto persone che mi hanno dato tanto senza chiedere nulla, che mi hanno mostrato quanto si possa volere bene al prossimo. E infine la letteratura, che mi ha aperto mondi senza frontiere e regalato un successo che mai mi sarei aspettato.

Quella sera io mi godevo la mia nuova vita italiana: una mostra d'arte, il concerto dei Velvet al Tunnel e la cena con il cantante Pier. Belle emozioni, momenti da ricordare con il sorriso. In motorino fino a casa, attraversando una Milano dove la pioggia stinge le luci in pitture dolci. E qualche ora nel silenzio, a scrivere il mio terzo libro, per poi cadere nel sonno. Felice, finalmente. A quel punto è squillato il cellulare, con il prefisso della Libia che non avevo mai visto. All'inizio la mia sorpresa è stata allegra: "Andrej, allora, come butta? Sei già diventato miliardario? La tua agenzia ti ha portato tanti soldi?". "Ma che! Uno come me se nasce povero, povero muore. Ho chiuso la mia agenzia un anno fa, troppa burocrazia e poco lavoro...". Io faccio una battuta: "Allora sei tornato contadino, come tuo padre?". Ma lui non era in vena di scherzi: "No, sono di nuovo operativo. Ti sto chiamando proprio per questo: ci sono tanti soldi, Nicolai, così tanti che in Israele non li guadagnavi in un anno! ".

"Operativo". Una parola che contiene tutto. Che mi trascina in un passato di blindati, di appostamenti, di battaglie tra i monti e le case della Cecenia e di tanti altri posti che vorrei dimenticare. Mi rendo conto che Andrej non sta giocando. Adesso capisco quel senso di fatica che c'è nella sua voce. "Ma dove li trovi così tanti soldi? Chi ti paga?".

"Ma tu non guardi la televisione? Non hai visto cosa succede in Libia?".
"Non mi dire che sei andato a servire a quel pezzo di merda di Gheddafi!".
"Tu non immagini quanto potere ha questa persona, mi hanno arruolato insieme con altri 300 operatori in un solo giorno, hanno pagato il triplo di commissioni alle nostre agenzie".
"Come è possibile? Gheddafi sembra isolato...".

"Ufficialmente lavoro per una compagnia petrolifera di proprietà del figlio del presidente. Mi pagano 10 mila euro a settimana. In questo paese se loro non controllano la situazione, tutto finirà nelle mani dei terroristi di Al Qaeda!".

"Non mi dire che lo fai solo per salvare il mondo dai terroristi...".
"Come sempre, nel culo ai terroristi, fratello! Senti, qui c'è tanto lavoro, mi hanno assegnato un reparto mobile: ho due elicotteri e 30 persone, serbi, croati, ungheresi, ucraini, lituani. Ma ci servono i cecchini. Abbiamo solo due tiratori capaci di colpire a 800 metri, come te: se vieni ti pagheranno un sacco di soldi!".
"Ma che dovete fare, Andrej? Contro chi dovete combattere?".
"Ma tu proprio non guardi la televisione! I terroristi, hanno preso in mano il Paese, hanno i carri armati, sono tantissimi: qui c'è una vera guerra civile! Noi facciamo le operazioni notturne, dobbiamo liberare le città occupate".
"Operazioni notturne".

I volti coperti dal passamontagna nero, la mimetica scura sopra le scarpe da ginnastica, il mitra con il visore a infrarossi, la pistola con il silenziatore e il colpo in canna, l'ultimo controllo all'equipaggiamento per essere sicuri che non faccia rumore e poi fuori nell'oscurità. Perché la notte è il regno dei contractor, quello in cui i mercenari sfruttano la loro superiorità guerriera. Piombano sugli avversari nel buio, li vanno a prendere nelle loro case o nei loro rifugi. Chi sono quelle persone da catturare o eliminare non importa: possono essere terroristi od oppositori politici, kamikaze o intellettuali, narcos miliardari o poveri contadini. I bersagli li scelgono i loro padroni per assecondare i governi che pagano, dittatori come Gheddafi o democrazie come gli Stati Uniti. Al telefono il mio vecchio commilitone serbo insiste: "Allora, hai deciso? Sei con noi?".

"Dai, Andrej, sono cittadino italiano oggi: mi sono fatto in quattro per costruirmi questa vita, non voglio mandare tutto a rotoli. Tu non ci crederai, ma sono diventato uno scrittore...". Prendo fiato e sono sincero fino in fondo: "E non credo che stiate combattendo contro i terroristi. La tv la guardo: mostra solo gente disperata che vuole la libertà. Senti, Andrej, con queste menzogne che vi raccontano finirete tutti molto male. Ma tu lo sai meglio di me, cerca di ricordartelo...".

"Mi dispiace, Nicolai: stai perdendo una buona occasione, tanti soldi...".
"Non mi servono quei soldi. Non penso ai soldi, penso che ora ho una vita più bella, che merita più di quell'inferno che state creando in Libia. Io penso ai miei amici, alla mia famiglia, penso al fatto che tra qualche giorno porterò mia figlia alla festa di carnevale...".

Questa telefonata si è chiusa con altre due frasi, che non riporterò perché sono troppo private: una sorta di confessione che Andrej ha deciso di farmi prima di riattaccare. Dico solo che quando sono rimasto nella mia stanza con il telefono in mano, in mezzo alla Milano immersa nei sogni, ho immaginato dall'altra parte della linea una persona profondamente infelice e confusa, una persona che commette atti terribili senza capire quanto siano gravi. Per un secondo mi è sembrato di essergli vicino, poi quella sensazione è sparita.

Ricordo le parole che mi ha detto un ex colonnello israeliano, contractor come me, mentre rientravamo dall'Afghanistan: "Lasciare dietro di sé un brutto ricordo è come rimanere in stato di morte per sempre, non si riesce mai a passare dall'altra parte". So che ora in Libia ci sono tante persone che, per guadagno o per il fascino della guerra, compiono azioni che le renderanno morte per sempre. Ed è terribile passare la vita in mezzo ai morti.

Nicolai Lilin, scrittore, ha raccontato in "Caduta libera" (Einaudi) la sua esperienza di cecchino russo nella guerra di Cecenia