In principio fu un party. Tra i partecipanti non c'era proprio gente qualunque: si aggiravano per casa di Vincente Minnelli e Judy Garland personaggi come Ira Gershwin, Irving Berlin, Oscar Levant. Dopo cena, tutti intorno al pianoforte. Liza, ancora bambina e spesso nelle braccia della mamma, si dimenava finché non riusciva a liberarsi. E si fermava rapita, ore e ore senza battere ciglia, ad ammirare quanto avveniva: dei veri show privati, incentrati sulle canzoni dei protagonisti del "Tin Pan Alley": una corrente che segnò la nascita della tradizione delle canzoni americane e della grande musica popolare, dal rock al folk, dal jazz al pop. Liza Minnelli, 65 anni, attrice, cantante, ha creato una carriera a partire da quegli insegnamenti assorbiti nell'infanzia: insegnamenti che ha riprodotto a modo suo. Oggi ha uno sguardo lucido su quegli anni e su quegli autori: e ha condensato tutto nel recente album "Confessions", riproposto dal vivo nelle poche date che sta offrendo al mondo. In Italia, sono due: il 13 luglio a Perugia per Umbria Jazz, il 19 a Lucca per il Summer Festival. Due concerti che presenta in questa intervista.
Nel suo disco canta Jerome Kern, Irving Berlin ma anche Neil Sedaka ed Etta James. È il suo modo di fare i conti con il passato?
"È un lavoro che nasce durante l'ultima degenza post operatoria. Dopo aver messo una protesi al ginocchio sono rimasta chiusa a casa per mesi: invitavo amici e finivamo a cantare. Mi sono molto divertita, specie con Tony Bennett e Janet Jackson, a ripercorrere queste canzoni che fanno parte della mia vita da sempre. In particolare il giudizio di Tony per me è stato importante: questo è il mio primo disco in studio da quindici anni, mi sentivo insicura. Bennett per me è importantissimo: una volta, subito dopo un trasloco, mi ritrovai in casa ancora senza mobili ma con tutti i dischi di Tony messi a posto".
Che effetto le fanno i riflettori? Deve esservi stata "educata" fin da bambina.
"La celebrità fa male comunque, mi ha spinto a molti errori, mi ha rovinato, nonostante avessi presente l'esempio dei miei genitori e dei loro amici e quindi conoscessi perfettamente la bellezza di quel mondo e, contemporaneamente, la malvagità. Ho dato del tu alla fama fin da quando ero bambina: la mia prima apparizione in un film fu quando avevo tre anni. E malgrado questo non mi sono salvata. Comunque penso di essere stata privilegiata rispetto a chi si è trovato famoso da un giorno all'altro. Non ho mai condannato Elvis Presley, Kurt Cobain o Britney Spears: per loro deve essere stato uno choc".
L'alcolismo, contro cui lei ha combattuto a lungo, può avere origini genetiche. Si è sentita predestinata?
"Ero predestinata ad assumermi una grande responsabilità: quella di curarmi. Liquidare l'alcolismo come un vizio sarebbe stato troppo semplice. L'ho trattato come una malattia".
"Music is the healing of the nation", cantava un suo collega, la musica può curare una nazione. Lo swing e Broadway l'hanno mai aiutata?
"Mi ha aiutata il rapporto con il pubblico, con i fan, perché io sento di avere un dovere nei loro confronti. Prima di salire sul palco molte volte ho avuto la tentazione di rinunciare. Poi ci salivo e tutto passava. Il concerto è un momento fortemente terapeutico".
Tra gli errori che citava prima, lei conta anche i quattro matrimoni naufragati?
"Col matrimonio ho chiuso, ma direi che sono stati degli errori, sì: però l'amore non lo è mai. Senza amore non potrei vivere. Mi è sempre piaciuto fare la bambina, presentarmi come una donna fragile, sensibile. Ora invece ho tutt'altra idea: sarà la vecchiaia, ma mi piace credere di essere indistruttibile. Non cerco più l'uomo della mia vita, sento che non c'è. Ogni volta che negli ultimi tempi ho pensato di aver trovato la persona giusta, e tutto sembrava molto romantico, bastava un giorno perché il sogno finisse e mi accorgessi che in realtà non sopportavo la vicinanza di quella persona".
Tornando ai riflettori, si narra che Marilyn Monroe le abbia insegnato come "dribblarli".
"Un giorno scendemmo insieme da Broadway per arrivare negli studi. Per strada c'erano centinaia di persone. Mi meravigliai perché nessuno la fermò per chiederle un autografo o una fotografia. Quando le domandai il perché, lei mi rispose divertita di osservarla bene. Mi mostrò i suoi pantaloni, che erano davvero sdruciti, e le sue scarpe infangate. Si camuffava da donna priva di sex appeal, e così nessuno la riconosceva. Io però neanche me ne accorgevo perché per me Marilyn era Marilyn: catalizzava la mia attenzione ogni volta che la vedevo".
Lady Gaga è la Marilyn di oggi?
"Entrambe hanno sempre cercato di spiazzare tutti, i fan e i detrattori, così sono riuscite a far parlare di loro stesse. Non è facile essere sulla bocca di tutti. Io non ci sono mai riuscita: ho molti fan, ma ci sono tante persone a cui sono indifferente e che non mi conoscono. Loro due, al contrario, per un verso o per l'altro sono entrate in tutte le case del mondo".
Le manca molto il suo amico Andy Warhol?
"Andy era un uomo molto curioso, ricordo bene quando iniziò a filmare la vita che lo circondava. Era capace di avere uno sguardo disincantato, mai superficiale. Aveva un occhio asettico, di una persona che non giudicava mai nessuno e non avrebbe mai fatto male neanche a una mosca. Allo stesso tempo era una persona molto divertente e circondata da altri personaggi famosi. Molti si confidavano con lui: era un uomo puro".
Ha duettato con Frank Sinatra e ha conosciuto John Lennon. Continua a pensare che il migliore sia Charles Aznavour?
"Continuo a pensarlo, perché ha un approccio alla canzone che mi è più vicino. Dà importanza alle parole, molto più che alla musica. Ci sono cantanti, come lo era mia madre, che privilegiano il ritmo, il senso del tempo. A me interessano di più le parole, l'alchimia che le lega. Dopo Aznavour ci sono stati Sinatra a Sammy Davis jr. Comunque lo confermo: Lennon era uno dei tanti che passavano nella Factory di Andy Warhol. Io per un lungo periodo lo frequentai assiduamente, soprattutto con la mia amica Bianca Jagger".
Il film di suo padre che preferisce?
"Probabilmente "Incontriamoci a Saint Louis", film durante le cui riprese i miei genitori si incontrarono. E nel film debuttò Lucille Bremer, giovane icona del cinema musicale molto sfortunata ma dalla quale presi ispirazione per i miei lavori".
"Cabaret", per esempio, che le permise l'accesso all'Olimpo dei grandi interpreti e a premi di non poco conto.
"Non saprei dirlo con precisione. Certo direi che ha ispirato la mia cifra stilistica in un senso ampio, la particolare sensibilità femminile".
Un ricordo dei suoi genitori?
"Un aneddoto: il 25 maggio del 1974 in casa loro, che da tempo vivevano separati, calò un silenzio assoluto. Nessuno osava aprire la bocca se non per mangiare: la notte precedente era scomparso Duke Ellington, uno che di ispirazione ne ha avuta parecchia. C'è poi l'insegnamento che loro mi hanno lasciato: mio padre mi ha donato i sogni, mia madre la forza per realizzarli e la capacità di distinguere tra questi e gli incubi. Era una donna molto lucida, nonostante la dipendenza dall'alcol".
Ha mai pensato di far sua una canzone che lei interpretava?
"Non mi permetterei mai: so bene che era irraggiungibile quando la sentivo intonare "Over the Rainbow"".
Un capolavoro assoluto. Anche la sua "New York, New York" però non scherza!
"Così sembra".
Cultura
1 luglio, 2011Il debutto a tre anni. L'incontro con Marilyn Monroe. L'amicizia con Andy Warhol. L'alcol. I quattro mariti. Le trasgressioni. La cantante ora arriva in Italia. E qui si racconta. Senza tabù. Colloquio con Liza Minnelli
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