Mi sono sempre sentito forte nel lavoro", dice Giorgio Bocca, "ma nei rapporti umani mi sento fragilissimo". La confessione arriva alla fine del film. Per la prima volta è un film su di lui: "La neve e il fuoco", il ritratto in Dvd firmato da Maria Pace Ottieri e Luca Musella che sta per uscire nella collana Feltrinelli Real Cinema. Il titolo s'ispira al primo capitolo de "Il provinciale", il suo libro più autobiografico e intenso, quello che inizia "Nella baita del sergente Durbano". Ed esprime molto di lui: la neve di inverni lontani e partigiani, il fuoco della guerra e dell'Italia rinascente. In realtà quello che "l'Espresso" ha visto in anteprima si potrebbe etichettare all'americana: questo film è, alla fine, The Essential Giorgio Bocca, come dire The Essential Miles Davis. Bocca ridotto all'essenza, come una pietra di morena tornita nel tempo dai torrenti glaciali. Essenza vera, nuda. Com'è naturale che sia, in un giornalista-scrittore che ha raggiunto incolume la vetta, o il rifugio, o forse solo il bivacco dei 91 anni.
Le parole scabre. La memoria selettiva. Gli aneddoti brevi. Un'allegra imprecisione, a tratti, sintesi sbrigativa che basta a rendere un carattere, un'atmosfera. Intorno a Bocca, nella sua casa di Milano, in un angolo di città vicino al quale sorgeva 500 anni fa la vigna di Leonardo da Vinci, sciamano gatti senza far rumore. E lui, la camicia aperta, a volte spettinato, ma assai a suo agio, ci offre schegge taglienti di Novecento. Quando provoca, su Palmiro Togliatti: "È stato uno dei primi anticomunisti che ho conosciuto" (nel senso che combattè, a modo suo, lo stalinismo). Quando dice che Milano commerciante, a differenza di Torino operaia, ha "sempre" avuto "rapporti con i fascisti", non solo ai tempi di Salò, anche dopo: sempre. Quando confessa senza infingimenti che nelle prime discese da cronista al Sud, negli anni Cinquanta, in Topolino, Palermo gli sembrò "popolata di persone mostruose". A Isernia ebbe il fantasmatico incontro con l'ultimo lebbroso. Terre primitive, dice, dove si "picchiava la faccia contro la barbarie".
Un Bocca beffardo, che va al sodo, senza fronzoli, due colpi di scalpello e un frammento di verità, magari aspra. La primissima frase è: "Senza la guerra partigiana avrei fatto l'avvocato a Cuneo". La guerra che salva da un destino opaco di borghese di provincia. Accenna ai nonni materni, contadini cuneesi "del Passatore" (dettaglio che ripete spesso, nei suoi libri), con la madre maestra, le brume, i cicli dell'agricoltura, i proverbi noiosi, le superstizioni; di contro, "mio padre nevrotico", un matematico infelice, incapace di comunicare, che tirava schiaffi nell'istante sbagliato. Bocca, nei primi minuti, mentre scorrono vecchie foto di famiglia, le gare di fondo, i balilla in maglia nera e i partigiani in camicia sporca, racconta della montagna del 1943-44 con le parole del comandante Dante Livio Bianco, "una meravigliosa vacanza". Dove il dramma era anche gioco: rimediare cibo, raccogliere armi, nasconderle, usarle, scampare al rastrellamento, ricominciare daccapo. Un gioco strano. Un drôle de jeu. In cui Bocca, in montagna, dovette uccidere un prigioniero tedesco, sparandogli a bruciapelo; ne ha scritto altrove, qui vi accenna appena. Una giovinezza tra il meritorio e il picaresco, dove le valli, val Maira, val Varaita, val Grana ricorrono come suoni di un mantra. E anche Gianni Agnelli, "arcimiliardario fighettone", brilla, nel ricordo, per quella cultura militare piemontese che odora di ferro e l'aveva spinto prima in cavalleria, in Russia, poi in sella alle fabbriche Fiat.
Affiorano figure del suo personale Novecento: Enrico Mattei, paragonato a un "federale fascista", di quelli "belli, virili, gentili", capace di fregare i colossi petroliferi delle Sette Sorelle per "senso dell'indipendenza e dell'orgoglio". Italo Pietra e il giornalismo corsaro del "Giorno". Gli sciagurati delle Brigate rosse, come la coppia Curcio e Cagol, "illusi pericolosi", dice, che però somigliavano più a loro, partigiani giovani, che ai "professorini", ai "cacasotto" del Movimento studentesco. Oppure Eugenio Scalfari, il gran curioso con un suo cinismo principesco. Ma il cinismo, dice Bocca, è dentro il nostro mestiere, fin da quando si rubavano le foto del morto dal comò dei parenti in lacrime.
C'è poi una narrazione toccante che riguarda il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Bocca rievoca la sua visita in una Prefettura palermitana deserta. Rimbombo di passi. Un uomo isolato, intorno al quale lo Stato aveva fatto terra bruciata e che la stessa gioventù palermitana che l'ascoltava parlar di mafia "guardava come un cadavere che cammina". Un morituro consapevole, Dalla Chiesa, che nell'accompagnare il giornalista all'aeroporto gli mormora: "Beato lei, che torna a Milano".
Dramma e gioco. Ampio distacco dalle cose. Berlusconi curiosamente assente: si parla di più di Oriana Fallaci, o dei Cederna ("Famiglia preoccupante, dove tutti eccellevano"), o di Tota Robiolo segretaria di Valletta alla Fiat che regalava caramelle ai cronisti a Natale intimando: "Silenzio, qui si fa l'Italia!". Gli aspetti aneddotici prevalgono sullo schema ordinato di una biografia; forse perché Maria Pace Ottieri, figlia di narratore, è narratrice più che cronista. Questo disordine a tratti irrita, a tratti diverte. Bocca, dietro il volto scolpito, da alpinista, a volte cerca le parole, e spunta la fragilità degli anni. Lui, che è parco di sentimenti privati, finge di confessare (in realtà ne parla spesso) quella "ossessione" di perdere il benessere, d'impoverire all'improvviso che non lo ha lasciato mai, "neanche la volta che ero in Grecia, in un albergo da ricchi, su un mare da ricchi", e lui stava sul letto a far di conto, ansioso, e sua moglie Silvia lo guardava come un matto. O quando riconosce l'altra sua debolezza, il "voler essere benvoluto anche dai miei nemici". È l'unico tratto, davvero l'unico, che lo accomuna a un altro più ingombrante anziano dell'Italia di oggi, uno che d'invecchiare sereno e saggio non vuol saperne, e da questa sua brama prima o poi sarà tradito.