Dalla fine degli anni Novanta, incidenza e mortalità calano tra gli uomini e aumentano tra le donne. Ma la ricerca fa progressi. E di questa neoplasia così aggressiva oggi si sa che è estremamente diversificata. Così si sviluppano farmaci specifici. Che hanno effetti solo su alcune categorie di malati, ma posso produrre risultati spettacolari. Parla Cesare Gridelli, direttore dell'Oncologia Medica dell'Ospedale Moscati di Avellino
Eppure, la buona notizia c’è. Il tumore del polmone, è vero, sembra ancora oggi spietato, subdolo, spesso invincibile. Ma ad aprirci gli occhi è Cesare Gridelli, uno dei massimi esperti di questa neoplasia, direttore di un’eccellenza del Sud, l’Oncologia medica dell’Ospedale Moscati di Avellino, quando ci invita a guardare i numeri nella loro crudezza, e vedere che, sia pure lentamente, il cancro del polmone sta cominciando a perdere terreno.
Professor Gridelli, ci sono validi motivi per essere ottimisti? «Dalla fine degli anni Novanta, incidenza e mortalità sono in calo negli uomini, ma in aumento nelle donne. Ogni anno vi sono circa 25 mila nuove diagnosi tra gli uomini e 8 mila tra le donne, e questo perché oggi vediamo i tumori che hanno iniziato a svilupparsi negli anni in cui fumare era considerato uno status symbol positivo e in cui le sigarette, per molte donne, purtroppo hanno rappresentato uno strumento di emancipazione. Vediamo però già i primi segni dell’aumento della consapevolezza. Per quanto riguarda la mortalità le cose non vanno ancora come vorremmo (oltre 27 mila decessi negli uomini, 7 mesi nelle donne). Tuttavia, basta tenere a mente un numero per capire quanta strada è stata fatta: fino a vent’anni fa, dopo la diagnosi non si faceva quasi nulla, e la sopravvivenza era al massimo di 3-4 mesi. Oggi si fa molto, e i pazienti con tumore anche abbastanza avanzato riescono a vivere in media 18 mesi, spesso con una buona qualità di vita. Non si tratta certo di un risultato di poco conto, anche se molto resta da fare».
A che cosa dobbiamo questo progresso? «Fortunatamente, oggi tutti conoscono l’esistenza del legame tra fumo e tumori polmonari e il numero di fumatori è in diminuzione: ci aspettiamo che nei prossimi anni diminuisca il numero delle persone che si ammalano. E poi ci sono stati notevoli passi in avanti nella conoscenza della biologia del tumore, che stanno portando a una vera e propria rivoluzione culturale. Sappiamo infatti che questa non è una malattia con poche varianti istologiche, ma che, anzi, è molto diversificata. Possiamo dire di avere numerose malattie diverse, in alcune delle quali, per fortuna, un singolo gene mutato è essenziale per la crescita del tumore. Questo ha portato allo sviluppo di farmaci specifici come gefitinib, erlotinib, afatinib, crizotinib e altri. Ognuno di questi farmaci è attivo solo su un 2-3 per cento del totale dei malati ma, in costoro, può avere effetti anche spettacolari, allungando molto la sopravvivenza e in alcuni casi portando a uno stato di cronicizzazione. Ecco perché sono ottimista: il puzzle si sta componendo, e grazie anche alle tecnologie, che oggi permettono analisi genetiche in poche ore e a costi accettabili, presto ogni malato avrà il suo farmaco specifico, più efficace di quelli usati in passato».
Le novità vengono dai farmaci biologici, allora? «Non solo. Abbiamo dimostrato, coordinando uno studio da poco pubblicato su “Lancet Oncology”, che il pemetrexed, un farmaco che si usa normalmente solo per i cicli di chemioterapia, può essere impiegato più a lungo e diventare cura di mantenimento, facendo aumentare la sopravvivenza di tre mesi. Un guadagno che sembra di poco conto ma che, considerato nell’ottica che ricordavo prima (oltreché, naturalmente, in quella della vita dei singoli malati), è molto importante perché potrebbe indurci a ripensare a come diamo anche altri farmaci. Anche se non sempre se ne ha la percezione, molto sta cambiando nella cura di questa malattia, e oggi è lecito attendersi - in un orizzonte temporale non troppo lungo - ulteriori, significativi progressi».