Barack Obama ha battuto Mitt Romney e resta altri quattro anni alla Casa Bianca. Ha vinto sul filo di lana, come era prevedibile, ma senza ombre. E ha festeggiato a Chicago, la sua città, la stessa dove aveva salutato nel 2008 la conquista della presidenza degli Stati Uniti. Obama ha vinto negli stati tradizionalmente democratici e poi ha conquistato per arrivare e superare i 270 voti elettorali, stati in bilico come Ohio, Iowa, Pennsylvania, Wisconsin.
Quando è arrivata la certezza che Obama ce l'aveva fatta l'Empire State Building di New York si è illuminato tutto di blu, il colore dei democratici, alle 23 e 19 minuti. Alla conferma del presidente si aggiunge una seconda notizia positiva per il Partito Democratico, ovvero la certezza di mantenere la maggioranza al Senato.
L'era Obama continua, dunque. Ma questo secondo mandato non sarà eguale al primo. La crisi economica non morde più la carne dell'America. Sia pure a velocità ridotta la ripresa è un dato sicuro, la disoccupazione diminuisce piano piano, la crescita misurata trimestralmente dal PIL continua a essere positiva. Non sarà eguale la seconda presidenza, anche perché Obama sarà più libero nell'azione politica. In America si dice che ogni presidente al primo mandato pensa solo a come essere rieletto, mentre nel secondo ha in testa solo come entrare nella storia del suo Paese.
I problemi che Barack Obama ha davanti a sé potrebbero, se risolti, farlo passare alla storia. Rimettere in piedi il Paese che era stato letteralmente piegato da una crisi finanziaria causata direttamente dai comportamenti del mondo di Wall Street e dalla cultura che si era affermata, ovvero che la ricchezza poteva essere prodotta essenzialmente dalla carta degli scambi finanziari e non dalla produzione di beni e servizi utili alla collettività, può far entrare il presidente nei libri di storia accanto a coloro che hanno fatto grande l'America.
Se Barack Obama riuscirà a invertire il percorso secondo il quale nella terra del Sogno Americano quello che aumenta sono le diseguaglianze tra i cittadini, che secondo gli studi dell'economista premio Nobel Joseph Stiglitz derivano da storture dell'economia di mercato a cui la classe dirigente non ha saputo e non ha voluto porre rimedio, Obama sarà ricordato a lungo.
Sulla scrivania presidenziale dell'Oval Office ci sono dossier delicatissimi. Afghanistan con la promessa di uscire dalla guerra entro il 2014; Iran con il problema di come gestire la corsa di Teheran al nucleare, il Medioriente con le questioni legate alla stabilizzazione dei Paesi che come l'Egitto, la Libia o la Tunisia hanno vissuto l'esperienza dlela Primavera Araba, la guerra civile in Siria. E poi i rapporti con l'Europa che toccano direttamente la questione economica americana attraverso un solo esempio: la UE che si avvita in una crisi senza fine significa immediatamente un calo delle esportazioni americane verso il vecchio continente che valgono il 30 per cento dell'intero export Usa.
Barack Obama ha davanti quattro anni per far vedere quanto vale e non ha il problema della campagna elettorale permanente che è l'incubo dei presidenti da oltre 30 anni. Quella che si è conclusa con il voto di martedì 6 novembre è l'ultima della vita politica di Obama. Il suo futuro potrà contemplare tutto tranne che la corsa a una carica elettiva.
La vittoria di Obama cancella con un colpo di spugna il tam tam degli ultimi anni, che poi si è espresso nella sfida lanciata dall'ex governatore del Massachusetts Mitt Romney, che Obama non era capace di governare l'economia. La vittoria è la risposta, certo non di massa, certo sul filo di lana, alla domanda: americani state meglio oggi di quattro anni fa quando il Paese arrivò sull'orlo del burrone del Grande Crack. Gli elettori hanno risposto positivamente e detto a Obama senza grande enfasi, che comunque il 2012 è migliore rispetto al 2008, quando quello che era un semi oscuro senatore afro americano entrò alla Casa Bianca.
Le accuse repubblicane a Obama, dalla richiesta ossessiva del certificato di nascita che avrebbe dovuto dimostrare che non era nato in America e dunque non poteva essere presidente a quella di essere un europeo, parola che nel dizionario dei conservatori repubblicani significa socialdemocratico se non addirittura socialista sono risultate perdenti.
Certo, la fotografia che esce da queste elezioni vede un'America profondamente divisa, soprattutto se si guarda al voto popolare, ovvero la somma dei voti di ciascun candidato a livello nazionale, rispetto ai voti elettorali. Ma questo è il sistema che gli americani si sono dati da un paio di secoli e che finora ha sempre funzionato. Anche se è fondato sull'assunto che The winner Takes it All, il vincitore prende l'intera posta, come recitava il ritornello di una canzone di successo degli Abba.