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Due città, una sola ferita

Il pesce sorcio è chiamato così perché ha una lunga coda, grandi occhi e vive nei bassi fondali fangosi del Mar Grande, le sue carni sono poco prelibate e l'aspetto è poco invogliante, ma dal suo fegato si produce un olio che nel dialetto tarantino è detto di pesce 'sorge', un unguento altamente cicatrizzante, dalle proprietà miracolose che sutura in pochi minuti anche le ferite più gravi, addirittura se ingerito può sanare le ulcere. Mai come in questi giorni ci vorrebbe una miracolosa pozione di olio per ricucire la grande ferita.

Taranto oggi è la città più divisa d'Italia, forse d'Europa. Difficile trovare nelle pieghe del vecchio continente un luogo che raccolga le contraddizioni – anche violente – che vive il capoluogo jonico. Taranto è sempre stata una città doppia: i due mari, il Piccolo e il Grande; i due cieli: l'azzurro dell'orizzonte limpido delle grandi città balneari del sud, e il ruggine-violaceo che si può ammirare dalla collina Orimini che divide Taranto dall'incantevole valle dei Trulli. E poi Taranto è un centro di duecentomila abitanti che sorge di fronte a due misteriose isole, San Pietro e San Paolo, (ce n'era anche una terza, San Niccolò, detta lo Squegghie, lo scoglio, talmente piccola che fu inglobata nei lavori di rimessa a posto di un porto). Ma anche la città delle due classi operaie, perché accanto a quella che oggi è alla ribalta nazionale, c'è anche quella delle altre realtà industriali, Cementir, le Raffinerie Eni, l'Arsenale, il porto. Sono migliaia e nei giorni del blocco degli operai Ilva non sono mancate le tensioni proprio con gli operai delle altre fabbriche che non riuscivano a tornare a casa o a prendere servizio. Per non parlare dell'articolato mondo dei pescatori, circa diecimila tra miticoltori e addetti al comparto pesca nei momenti più floridi prima della crisi.

Il caso Ilva, oggi è diventato nazionale. Avrebbe dovuto esserlo molto tempo fa, prima dell'intervento in extrema ratio dell'autorità giudiziaria. Quando son aumentati i controlli sulle emissioni della diossina, il danno era fatto e affonda le sue radici in incurie e miopie lunghe 50 anni, sin dai tempi della scelta di affidare a Taranto una vocazione industriale che non avrebbe mai attecchito fino in fondo (tanto da prevedere nel lessico degli studiosi un termine affidato alla classe operaia tarantina, quella dei 'metal mezzadri', coscienza di classe con spruzzata di civiltà contadina).

La minaccia di chiusura del più grande complesso siderurgico del Mediterraneo ha mosso istituzioni che in questi anni avevano delegato sin troppo una questione che sembrava essere locale. Col vertice di Venerdì 17 il governo ci ha messo la faccia con due ministri, e su questo Taranto si è divisa ancora una volta tra gli ottimisti (pochi), i pessimisti e gli scettici totali del tanto andrà sempre peggio. Esiste infatti una questione nazionale su cui si è abbattuta la più drammatica delle semplificazioni: pane e veleno, aria pulita e fame. Ma Taranto vive una questione territoriale che si articola di una situazione complessa e che meriterebbe un'analisi altrettanto complessa.
La città è spaccata. Ma non come sembra emergere da fuori, i pro e contro Ilva, ma una ben più frammentata suddivisione che ha ai poli opposti gli oltranzisti pro Riva, che definiscono il patron un benefattore, e dall'altro coloro che invece sono per la chiusura immediata del Siderurgico senza se e senza ma. In mezzo un mondo vastissimo che va dagli operai critici, agli epurati, gli ammalati, i sindacati che marciano e quelli che trattano, gli accondiscendenti, i malati e i parenti di chi è morto per una delle neoplasie che le perizie imputano al siderurgico. Ci sarà mai un risarcimento a queste persone? Un risarcimento a Taranto? E chi pagherà le bonifiche? Per ognuno di questi interrogativi, ci sono correnti di pensiero, associazioni, dibattiti, le famiglie scoppiano. Un caos che si vive nella quotidianità, sui luoghi di lavoro in cui non si parla d'altro e sempre in toni molto accesi.

Che il Siderurgico inquini non ci vuole la perizia dei giudici, basta farsi un giro a Tamburi e osservare il colore degli intonaci, passarci un dito sopra e immaginare cosa può essere respirare lì tutti i giorni della tua vita. Ma a Tamburi, accanto alle persone che vivono ammalandosi, ci sono quelle che lavorano all'Ilva.

Sullo sfondo c'è un attivismo che non ha eguali nel resto del paese. A fine luglio è nato il Comitato dei cittadini liberi e pensanti, una sigla sotto cui si sono aggregati ambientalisti, sindacalisti autonomi, operai ed ex operai Ilva, malati e qualche ultra del Taranto calcio, una tifoseria organizzata che spesso ha avuto un ruolo politico nella città. È solo l'ultima associazione fondata autonomamente e nota alla cronaca per il suo ingresso pittoresco con l'apecar durante la manifestazione dei confederali.
Dario Bellucco è un giovanissimo scrittore, ha vent'anni sta per pubblicare il suo primo libro con l'editore Lupo e mi ha raccontato le due anime di Taranto con una metafora efficace e che applicherei anche alla realtà attuale: città vecchia vs città nuova. I due quartieri sono separati da un ponte che non è un ponte normale, è il ponte girevole, che quando partono le navi verso le missioni all'estero si alza e sancisce la frattura anche fisica delle due città. I ragazzi della città nuova sono i figli della borghesia, ma anche i figli della classe operaia tarantina (che in larga parte vivono nei quartieri periferici come Paolo VI oppure nei paesi vicino come Statte o Massafra); quelli del centro storico sono invece la parte marinara di Taranto, i figli del mare, pescatori, coltivatori di cozze, coloro che serbano nelle loro dispense l'olio di pesce sorcio. In realtà lo spirito più pugnace e chiuso di questa città (esistono ragazzi nel centro storico che non han mai varcato il ponte girevole).

Per distinguere un tarantino nuovo e uno antico basta una camicia. Il nuovo partirà dal bottone del colletto e arriverà sin giù, ma salterà almeno un'asola, mentre il vecchio non partirà dal primo, forse da quello del mezzo, ma quando l'avrà abbottonata non ci sarà nessuna asola vuota.
Questo che significa? Che i tarantini veri hanno uno spirito anarchico, ma concreto che sa arrivare in fondo alle cose, un po' con l'intraprendenza dei loro avi magno greci. E sarebbe questo lo spirito migliore con cui affrontare la questione.

C'è un'emergenza pratica oggi a Taranto, ed è anche superiore a quella che riguarda il mare, sempre più inquinato, beffardamente mentre scrivo una nave turca sversa scarti industriali nel Mar Grande. L'emergenza su cui si gioca la partita, anche politica, è quella dei parchi minerari, che nel Siderurgico tarantino sono incredibilmente a cielo aperto. I tarantini lo sanno, è la polvere che spazzano ogni giorno dai loro balconi e che entra nei loro polmoni che li ucciderà, quella polvere che si alza dai grandi cumuli neri che si susseguono con l'aspetto di una catena montuosa ha cambiato i loro sistemi vascolari, i loro metabolismi, i loro polmoni.

La sensazione generale è di non essere ascoltati, e che la questione nazionale si stia giocando sulla loro pelle, l'assoluta mancanza di concretezza, ciò di cui ci sarebbe bisogno invece dei balletti di cifre, delle locuzioni come 'i soldi in animo di impegnare', dei duelli tra benpensanti fatti di slogan. Il gesto più concreto sarebbe la copertura ai parchi che oggi non c'è, anche se paradossalmente si sta ipotizzando dopo il vertice del 17 di spostare il quartiere più che coprire i materiali. Poca concretezza, ma molti gli esercizi di stile che producono a Roma i novelli paladini dell'industria pesante che non hanno mai messo piede in una fabbrica, da chi è arrivato a scrivere che la causa delle morti è ascrivibile alle sigarette e da chi le sue battaglia ambientali le fa nel salotto di casa sua senza un briciolo di benzopirene nel sangue. Sarebbe interessante quando li si sente pontificare metterli alla prova camicia. Se la sapranno abbottonare dal mezzo?
A 35 anni Mario Desiati è direttore editoriale di Fandango Libri.
Con il romanzo 'Ternitti' nel 2011
è stato finalista al premio Strega

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