Paolo Pozzessere, il top manager di Finmeccanica coinvolto nello scandalo, racconta la sua reclusione nel carcere più affollato e disumano d'Europa: Poggioreale, Napoli, Italia

Il sole di una splendida mattinata romana filtra dalle tende, illumina l'attico di un bel palazzo in una delle zone più eleganti di Roma e gli regala un pizzico in più di tepore. «Ma il freddo che ho provato in cella, dove in pieno inverno il riscaldamento viene acceso per sole due ore al giorno, me lo porto ancora nelle ossa».

Paolo Pozzessere, 56 anni, è tornato da poche settimane un uomo libero, dopo tre mesi di custodia cautelare nel penitenziario di Poggioreale. L'ex potente direttore commerciale di Finmeccanica, arrestato all'alba del 23 ottobre scorso dai pm napoletani che indagano sulle commesse internazionali della holding di Stato, è l'uomo delle intercettazioni con Berlusconi e Lavitola sullo sfondo dei chiacchierati appalti panamensi. Il manager trascinato in prima pagina per l'amicizia con Debbie Castaneda, l'affascinante modella colombiana imposta come consulente alla più grande e strategica azienda pubblica italiana dai deliri ormonali dell'ex premier.

Di quelle vicende, dell'inchiesta in corso e dei nomi appena citati Pozzessere, da qualche giorno rientrato in azienda, non vuole parlare. Per lui le persone che contano oggi sono quelle incontrate in cella. Otto detenuti, tutti napoletani, con i quali ha convissuto in condizioni talmente degradate da spingerlo a riaffacciarsi con il proprio cognome sui media «anche se oramai ho paura dei luoghi affollati e mi viene ansia perfino quando vado a fare la spesa».

Quello di Pozzessere è il racconto crudo di un uomo influente catapultato nel penitenziario più affollato d'Europa: «Ho vissuto la galera vera, dura e senza trattamenti in guanti di velluto». Un tuffo nel carnaio, un'esperienza estrema, «mentre i politici hanno i colleghi che sfilano per venirlo a trovare, da me non è venuto mai nessuno», dice.

Poggioreale è una bolgia che ribolle di 2.700 detenuti, quasi 1.300 oltre il limite massimo di capienza, gli stranieri separati dagli italiani, tutti in attesa di giudizio o di condanna definitiva. Poggioreale. «Noi eravamo nell'ala ristrutturata di recente, nove persone rinchiuse in venti metri quadri, con un bagno. Praticamente un lusso, visto che in altri settori del carcere mi hanno detto che ci sono celle con 14 detenuti e una turca piazzata al centro», racconta Pozzessere.

Per sperare in una doccia calda, vietato alzarsi dopo le sei del mattino. Nessuna attività ricreativa per i carcerati, niente strutture per fare sport o imparare un mestiere, solo un'ora d'aria «pigiati in un cortiletto fetente, pieno zeppo di mozziconi di sigarette. Per fare un po' di esercizio usavamo delle bottiglie d'acqua e un manico di scopa come bilanciere, uno alla volta perché nella cella non esistono spazi vitali. Ci pestavamo i piedi continuamente».

Poggioreale, come un mostro, sputa e ingurgita uomini senza sosta: «Ogni giorno», racconta Pozzessere, «a Napoli vengono arrestate talmente tante persone che a volte non passano nemmeno 10 minuti tra l'uscita di un detenuto e l'ingresso di un altro».

L'assistenza psicologica, fondamentale in una struttura dove suicidi e gesti autolesionistici sono frequentissimi, è garantita da uno specialista per ogni 400 persone.

I pochi addetti che ci sono, dice Pozzessere, fanno quello che possono: «Il personale passava ogni tanto a chiedermi se avessi bisogno di qualcosa. Poi un giorno un assistente del carcere si è affacciato per domandarmi se mi servissero delle medicine».

La violenza no, Pozzessere non l'ha vista. «Solo qualche schiaffone a chi dava di matto. Ma ho sentito più volte di detenuti aggrediti dai compagni perché rifiutavano di lavarsi», ricorda.

Ogni nuovo carcerato, al suo arrivo, viene obbligato a farsi la doccia. La pulizia dei compagni di cella del manager era maniacale: «La paura di beccarsi un'epatite là dentro è un'ossessione, con nove persone a usare lo stesso gabinetto per più volte al giorno, e un medico ogni 800 reclusi».

Tutti i prodotti per lavare e disinfettare però sono a carico dei detenuti. «Così come il cibo che cucinavo io per tutti su un fornelletto da campeggio», racconta l'ex direttore commerciale Finmeccanica. «Quello della mensa carceraria era immangiabile».

Nel microcosmo isolato costituito da ogni cella di Poggioreale, avere tra i compagni una persona con qualche soldo in banca, fa capire Pozzessere, può fare la differenza tra la sopravvivenza e il degrado.

Tra i ricordi più dolorosi l'unica conversazione avuta in carcere con la sorella e la ex compagna: «I colloqui sono una cosa vergognosa: i parenti si mettono in coda alle quattro del mattino per riuscire ad entrare all'una del pomeriggio. Dieci detenuti per volta, nella stessa sala, parlano con i parenti separati da un vetro». Tra i momenti meno tristi, la notte di Capodanno: «Quando i parenti dei detenuti si radunano tutti intorno al carcere e fanno esplodere fuochi artificiali e botti bestiali, sembrava che venisse giù il carcere».

Come per altri carcerati illustri, anche per l'ex potente manager l'àncora di salvezza è stata quella dei rapporti umani. Con la polizia penitenziaria, «gente che fa tutto il possibile in una situazione drammatica». Con i compagni di prigionia, «ragazzi giovani, quasi tutti in carcere per spaccio o rapina. A parte uno accusato di aver ucciso la moglie e un altro condannato a 5 anni per vendita di dvd contraffatti, anche lui in attesa di giudizio definitivo». Persone che, ricorda con emozione Pozzessere, lo hanno circondato di umanità fin dal suo ingresso. «Ed è stato uno choc scoprire che dei ragazzi così giovani, in teoria con la terza media, sono in realtà quasi del tutto analfabeti».

Tra tutti Pozzessere vuole ricordare il nome di Marcello De Gregorio, un ragazzo di vent'anni con una bambina di due, originario di Scampia, dentro per spaccio: « Quando sua figlia è caduta dal balcone finendo in ospedale», racconta il manager, «lui l'ha scoperto dal giornale. Ha potuto vederla solo dopo una settimana».

Con i detenuti sta provando a mantenere i contatti anche adesso che ha lasciato Poggioreale. «Ieri ho spedito un po' di soldi alle loro famiglie, continuerò a farlo con regolarità e ho anche intenzione di scrivergli. Ma so che per aiutarli a costruirsi un futuro ci vorrebbe ben altro».

Perché da un carcere come quello di Napoli, uomini di ogni età stipati come bestie, unico stimolo intellettuale le partite consumate in televisione rannicchiati nei letti a castello, a rintronarsi con l'abbonamento Premium gentile omaggio della diocesi del Cardinal Sepe, si esce con zero prospettive e un destino segnato: ritornare dietro le sbarre.

«Per le persone che ho conosciuto lo Stato semplicemente non è mai esistito e a Poggioreale non hanno certo modo di scoprire cosa sia. Le carceri italiane sono lo specchio di un Paese senza più risorse. Le poche che ci sono andrebbero concentrati nelle infrastrutture, a Napoli serve con urgenza un nuovo carcere fuori dal centro abitato, magari coinvolgendo i privati e stando attenti alle infiltrazioni della camorra», dice il manager.

Tra le foto allineate sulla mensola alle sue spalle, quelle dei tre figli con i quali, la mattina dell'arresto, avrebbe dovuto partire per trascorre a Mosca il ponte del primo novembre. Ma ce n'è anche una foto con Berlusconi, ricordo del 'famigerato' viaggio a Panama.

Sul suo futuro, l'incertezza regna sovrana. «Per ora sono in attesa di un nuovo ruolo in Finmeccanica, ma dopo le elezioni ho intenzione di mettermi in contatto con i Radicali. Voglio capire come si può migliorare la situazione delle persone straordinarie che ho conosciuto dentro l'inferno di Poggioreale».

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