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Politica
dicembre, 2014

L'ultimo miglio di Re Giorgio Napolitano

I ventuno mesi del secondo mandato ormai finito: dal governo Letta ?alle parole contro l’antipolitica. Ora il presidente della Repubblica se ne va. Lasciando tutto in mano a Matteo Renzi

«Resterò per un tempo non lungo», aveva annunciato un anno fa augurando agli italiani un buon 2014. Ma ora che arriva alla conclusione del mandato breve, appena ventuno mesi, lo stato di eccezione che lo spinse ad accettare un secondo mandato, all’alba del 2015 in cui compirà novant’anni, Giorgio Napolitano con la sua uscita dal Quirinale conclude una stagione che coincide con l’intera storia repubblicana. Il presidente si dimetterà all’indomani della conclusione del semestre italiano di presidenza europeo, subito dopo il discorso del 13 gennaio di fronte al Parlamento di Strasburgo del premier Matteo Renzi. Neo-quarantenne: compirà i quaranta l’11 gennaio.

Un passaggio di testimone. C’è mezzo secolo di distanza tra Napolitano e Renzi. Con Re Giorgio fuori dal Quirinale si conclude il lungo corso della generazione nata e cresciuta con la Repubblica, con la memoria viva della Resistenza e dell’Italia divisa tra gli eserciti stranieri, i giovani deputati entrati in Parlamento negli anni Cinquanta, i Napolitano nel Pci e i Cossiga nella Dc, all’ombra dei leader dell’epoca, Palmiro Togliatti, Antonio Segni, Amintore Fanfani, Aldo Moro.
[[ge:espresso:palazzo:1.192023:article:https://espresso.repubblica.it/palazzo/2014/12/16/news/toto-quirinale-chi-dopo-giorgio-napolitano-vota-il-tuo-presidente-della-repubblica-1.192023]]
L’ultima apparizione a Montecitorio, in cui ha trascorso tutta l’esistenza, è stata per inaugurare una mostra su Togliatti. C’erano tre o quattro classi di comunisti, ex comunisti, post comunisti intorno a lui: Reichlin, Tortorella, Macaluso, Marisa Rodano. E poi Bersani, Andrea Orlando, Matteo Orfini. Non erano lì per ricordare il Migliore, ma per celebrare lui, l’anziano presidente, ritto in piedi con il bastone. E con lui una generazione che è cresciuta nel culto del primato della politica. E che si è ritrovata a vivere la crisi della democrazia e, in età avanzata, un sistema in disfacimento. La politica che «racchiude in sé molta durezza, necessità, amoralità, molte expediency, ma non potrà mai rinnegare completamente la parte etica e umanamente rispettabile della sua natura», scriveva Napolitano nella pagina finale della sua autobiografia “Dal Pci al socialismo europeo” (Laterza) citando l’amato Thomas Mann. E spiegava con Plutarco perché è così difficile abbandonare la scena: «L’importante è fare attività politica, non averla fatta».

A rileggere a ritroso i ventuno mesi del secondo mandato di Napolitano, dal 21 aprile 2013 in cui fu rieletto presidente della Repubblica con 738 voti su 997 dopo il disastro delle votazioni su Franco Marini e Romano Prodi, si comprende come sia questa la sua eredità più profonda. Il ritorno alla politica. Con le sue regole non scritte, ma anche con i suoi spazi di autonomia e perfino di creatività.

Erano le diciassette meno dieci di lunedì 22 aprile, la campana maggiore di palazzo Montecitorio rimbombava sotto un cielo color ferro e una pioggerellina più autunnale che primaverile, quando il presidente rieletto varcò il portone della Camera per il secondo giuramento. Più che la soddisfazione pesava l’angoscia, lo spettacolo di un sistema politico obbligato ad aggrapparsi a un uomo di 88 anni per salvarsi dal baratro.

Il discorso di giuramento del presidente rispecchiava la sensazione di un impazzimento collettivo. Solo «il drammatico allarme per il rischio ormai incombente di un avvitarsi del Parlamento nell’inconcludenza», spiegò Napolitano, lo aveva convinto ad accettare il secondo mandato.

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Una situazione di caos istituzionale che era «il punto di arrivo di una lunga serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità». A quel punto partì uno spettacolo surreale. Il presidente andava giù duro e prendeva a schiaffi la classe politica e i parlamentari si spellavano le mani a ogni rimprovero. Più Napolitano alzava la voce, più quelli applaudivano. Fino a costringere il presidente a lanciare l’avvertimento finale: «Se mi troverò di nuovo di fronte a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al Paese». Elezioni anticipate o, più probabilmente, nuove traumatiche dimissioni.

Quel pomeriggio c’era altro da osservare. Le facce dei vincitori e degli sconfitti nella partita sul Quirinale. Nessun dubbio su chi avesse perso: Bersani. Nel giro di quarantotto ore si era fatto sfuggire la possibilità di eleggere un suo candidato al Quirinale, l’incarico a Palazzo Chigi e la segreteria del Pd. E nessuna incertezza su chi si sentisse vincitore: Silvio Berlusconi. Il Cavaliere aveva tenuto lontano dal Colle il rivale Prodi grazie alla sua quinta colonna nel Pd, la carica dei 101 franchi tiratori, aveva manovrato per rientrare al governo in alleanza con il Pd e si aspettava, come contropartita, di essere messo al riparo dalle sue disavventure giudiziarie.

Bastava vederlo, quel pomeriggio, nel cortile di Montecitorio, saltellare di telecamera in telecamera, sorridente e felice, raggiante. Appena una settimana dopo, come previsto, nacque il governo delle larghe intese Pd-Pdl, presieduto da Enrico Letta ma voluto da Napolitano. Con un gesto irrituale il presidente uscì dallo studio della Vetrata e pose le sue mani su quelle del neo-premier in diretta tv. Un gesto ieratico, sacerdotale, per chiarire che anche il governo Letta, dopo il governo Monti, poteva contare su un protettore al Quirinale.

Uno scudo politico a prova di assalto termo-nucleare, costruito per parare il colpo rispetto alle due grandi novità che prevedibilmente si sarebbero abbattute sul gracile governo di Enrico il Breve da lì a poco. La condanna di Berlusconi: se il Cavaliere pensava di essersi conquistato l’immunità politica con la rielezione di Napolitano si sbagliava di grosso. Nel giro di poche settimane l’ex premier fu condannato a Milano a sette anni in primo grado per il caso Ruby, la Corte costituzionale bocciò il tentativo di ritardare il processo sui diritti Mediaset e il primo agosto arrivò la sentenza definitiva di colpevolezza della Cassazione.

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Nonostante la richiesta di Arcore a intervenire con una grazia, un salvacondotto o qualche altra invenzione giuridica, con una nota alla vigilia di ferragosto il Quirinale dichiarò il caso politicamente chiuso: «Di qualsiasi sentenza definitiva, e del conseguente obbligo di applicarla, non può che prendersi atto». La vita del governo Letta, invece, non andava messa in discussione: «il ricadere nell’instabilità e nell’incertezza ci impedirebbe di cogliere e consolidare le possibilità di ripresa economica finalmente delineatesi». E quando Berlusconi provò a forzare, i suoi cinque ministri, a partire dal delfino Angelino Alfano, gli voltarono le spalle e fondarono l’Ncd. Il Cavaliere finì fuori dal Senato, beffato. Ma poi in appello è arrivata l’assoluzione sul bunga bunga. Gli è stato evitato l’inferno, solo il purgatorio dei servizi sociali, Cesano Boscone.

Il secondo attacco al governo Letta era più difficile da fronteggiare. La scalata di Matteo Renzi alla guida del Pd, un fronte lasciato sguarnito dai capi storici Bersani e D’Alema, per poi muovere alla conquista di Palazzo Chigi. Un’operazione portata a termine in meno di due mesi. Prima ostacolata dal Quirinale, poi avallata dopo una cena a due tra Re Giorgio e Matteo il Giovane nella sera in cui, per beffa, alla mensa del Colle era atteso come commensale il premier Letta.

Adesso che il mandato volge alla fine Napolitano sembra puntare tutto su Renzi, così lontano da lui per origine, spirito, cultura. Al di là del mezzo secolo di età di distanza e dei tweet, sono accomunati dall’idea del primato della politica. Contro il nemico dell’anti-politica, «patologia eversiva», l’ha definita il presidente nell’ultimo discorso all’accademia dei Lincei, qualcosa di molto più ampio del Movimento 5 Stelle.

Per l’ex capo della destra migliorista del Pci si estende ai magistrati che si fanno protagonisti «di iniziative di dubbia utilità» (intendendo, forse, il processo sulla trattativa Stato-mafia in cui è stato chiamato a deporre come testimone), agli «opinion leaders senza scrupoli» che cavalcano l’onda. Tutto ciò che può intralciare quello che il presidente intende per regolare funzionamento del sistema politico italiano, percepito come fragile, da sostenere, da preservare.

Per Napolitano l’anti-politica è in realtà un’altra concezione della politica, opposta alla sua che prevede l’equilibrio tra i poteri, il rispetto dei rapporti di forza tra elites, un «cambiamento nella continuità» che è il prodotto della mediazione più che di fiammate emotive. È il liberale Camillo Benso di Cavour l’eroe politico di Napolitano, più di tanti protagonisti della storia della sinistra italiana cui pure il presidente appartiene. E pazienza se per domare l’anti-politica è servito il neo-quarantenne Renzi che ha iniziato la scalata da rottamatore e ora è il centro del sistema.

Sulla partita della successione al Quirinale il premier si gioca la possibilità di stabilizzare la sua egemonia per il prossimo decennio. Se viene eletto il suo candidato per il Colle senza eccessivi danni, chiunque sia, Renzi potrà passare alle prove successive, la nuova legge elettorale, la riforma della Costituzione e la sfida all’Europa a trazione Merkel, lo sfondamento dei parametri economici. Non si sa ancora chi sarà il Successore (il presidente ha abbozzato un identikit vicino a quello del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan), ma fin da ora è chiaro chi sia l’Erede.

Toccherà al giovane Renzi ricevere il patrimonio di Napolitano. Perché solo se le riforme di Renzi avranno successo, Napolitano potrà essere ricordato nei libri di storia come il presidente che ha traghettato lo Stato alla nuova fase. Altrimenti, sugli anni di Re Giorgio, sarà il diluvio.

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