La libertà, il desiderio, il libertinaggio. Su questo si fonda l’essenza dell’Occidente. Che il Califfato vuole distruggere ?in nome del nichilismo. Ed è qui l’unico conflitto di civiltà
Come convincere non tanto i militanti e i quadri indottrinati dell’Is, ma le masse dei musulmani fuori dall’Europa, e anche noi stessi qui in Europa, che lo champagne è meglio del martirio? Non è una domanda oziosa o di maniera . Quando si è in guerra - e siamo in guerra - è facile la tentazione di dire: rinunciamo agli agi, al superfluo, al lusso, perfino alla libertà: perché il nemico è alle porte, anzi dentro casa nostra.
Salvo che la nostra identità sta proprio nella liber tà, nel desiderio, nel rifiuto di rinunciare ai presunti lussi. In altre parole, per fare un esempio storico, e prima ancora di parlare di Parigi e delle conseguenze della notte di terrore tra il 13 e il 14 novembre: gli inglesi, ai tempi della Seconda guerra mondiale e di Churchill seppero resistere ai quotidiani bombardamenti tedeschi perché volevano continuare a vivere da cittadini liberi; con il poliziotto di quartiere disarmato (lo chiamavano affettuosamente bobby), che aiutava le vecchiette ad attraversare la strada; e perché sapevano la differenza tra i giochi dei boy scout e quelli degli Hitlerjugend.
Allora, che fare oggi, con un avversario nuovo, assassino e che non solo non teme la morte, ma la cerca? Come far fronte ai kamikaze che mentre si immolano invocano il Dio grande e (non) misericordioso? E a che cosa siamo disposti a rinunciare per difenderci? L’abbiamo chiesto a un filosofo esperto di nichilismo; a un rabbino protagonista del dialogo interreligioso con l’Islam e a uno storico tedesco-israeliano, tra i massimi studiosi del Novecento, cioè del secolo delle ideologie e dei teorici (ed esecutori) della morte. Ecco cosa ci hanno detto.
Sergio Givone, filosofo, autore di opere fondamentali dedicate al nichilismo e alla questione del Male, parte proprio dallo champagne, anzi dall’Aria dello champagne in “Don Giovanni” di Mozart, un’opera che parla di libertà e libertini, per dire una cosa radicale: «La libertà è l’essenza dell’Occidente». Aggiunge: «La libertà corrisponde al desiderio». A questo punto un’annotazione: il libertinismo («abominio e perversione», secondo gli ideologi islamisti) è parte integrante dell’Illuminismo, l’arci-nemico di ogni fondamentalismo che si serve di Dio come argomento ultimo e dirimente.
Per tornare alla questione del conflitto in corso, Givone continua: «La posta in gioco non è quindi l’alternativa, del tutto presunta, tra edonismo e vita ascetica, ma tra la vita e il nulla». E così, con la parola “nulla”, che in termini filosofici può corrispondere al termine “morte”, viene introdotto il tema del nichilismo. Il culto della morte è un leitmotiv che nella storia dell’Occidente ha attraversato molti terrorismi e ha avuto parte importante nell’immaginario fascista (basta pensare al grido “Viva la Muerte” dei falangisti spagnoli o “A cercar la bella morte” dei combattenti di Salò). Ecco: per Givone (che cita in proposito Slavoj Zizek, André Glucksmann e Tahar Ben Jelloun) «quelli dell’Is, saranno anche seguaci della fede di Maometto, ma prima di tutto per loro Dio è solo ideologia».
Di più, dice Givone: «La loro religiosità è fascista e nazista, quindi priva di spiritualità e in fin dei conti di religiosità stessa, sono dei nichilisti assoluti». Un paradosso che non è un gioco intellettuale, perché l’analisi del filosofo ha conseguenze pratiche. Quali? «Prima di tutto non rinunciare alle nostre libertà, alla nostra fede, perché la nostra fede è la libertà». Dice Givone: «Dobbiamo promuovere la nostra fede e non svilirla, come spesso facciamo». Promuoverla come? Con le armi? E a quale prezzo? Givone risponde: «Con le bombe, col dire “saremo spietati” non si ottiene niente. Al contrario bisogna aprirsi, essere accoglienti, fare coalizione con l’Islam che non vuole il terrorismo. Perché l’Is può essere sconfitto solo dai musulmani stessi». E da filosofo conclude: «Una volta chiarito che noi non rinunciamo a niente, possiamo superare la dicotomia nemico-amico, perché qualunque persona ragionevole capisce che siamo, noi Occidente e loro Islam, sulla stessa barca».
Joseph Levi, rabbino capo di Firenze, solidi studi laici alle spalle (filosofia e psicologia) e protagonista con l’imam Izzedin Elzir di molte iniziative comuni, riprende e allarga il discorso sul nichilismo. Lo allarga in termini teologici, per dire che «non esiste la tentazione del Male, perché il Male, come categoria ontologica non ha luogo». Tradotto laicamente: le nostre scelte sono etiche e politiche e chi usa Dio per scopi impropri, sbaglia. Dice Levi: «Secondo le Scritture, Dio vide il Creato e disse che era buono». Il mondo è quindi bello. E sempre la Torah ordina: «Tra la vita e la morte, scegli la vita». Come per Givone, così anche per Levi è importante fondare l’eventuale manuale del buon resistente all’Is su considerazioni essenziali e primarie; sulla natura del nostro essere umani e sul nostro rapporto con la trascendenza (che ai militanti dell’Is, sembrano dire ambedue, manca). Ecco perché Levi prosegue con il suo elogio della vita. Dice: «Sono gli stessi musulmani ad aver fatto loro un nostro detto: “Chi uccide un’anima è come se avesse ucciso il mondo, chi salva un’anima è come se avesse salvato il mondo”. Dio vuole la vita perché è contento del Creato».
Chiarito questo, rimangono due questioni: la prima, sul tipo di vita (“dissoluta” o meno) che Dio vuole; e la seconda, che fare con l’Is. Alla prima Levi risponde che pure la materialità ha un significato divino. Quindi è lecito divertirsi, andare in discoteca, bere appunto lo champagne? «Se sto dicendo che Dio ha creato un mondo buono, lo faccio per sottolineare quanto l’abbia fatto anche perché noi potessimo divertirci e godere della bellezza». E poi: «Nel Talmud c’è scritto che chi ha visto la bellezza e non l’ha goduta è passibile di morte». Vuole dire: non godere è come essere condannati a morte o come essere già morti. «Ripeto», dice Levi, «il conflitto non è tra divertimento e metafisica». E come opporsi all’Is? «Individuando le basi del malessere per porvi rimedio; dare risposte politiche e sociali. Quelle culturali le deve dare l’Islam». E morire per difenderci dai terroristi? «Premesso che anche nel volto del nemico vedo riflessa l’immagine di Dio, chi viene a uccidermi deve sapere che saprò difendermi».
Ma davvero sapremo e sappiamo difenderci? Il presidente francese Hollande a mezzanotte tra venerdì e sabato sembrava ispirarsi al generale De Gaulle, che però aveva letto Tacito e Giulio Cesare, prima di diventare leader: sapeva quindi cosa fossero la Storia e la Guerra. E Hollande? Dice Dan Diner, professore a Lipsia e Gerusalemme: «Oggi siamo capaci di oscillare tra lutto e bombardamenti dal cielo, ma non sappiamo prendere decisioni vere». Spiega: «Alla generazione dei nostri leader manca quella che possiamo chiamare “esperienza di vita e di storia”. Sono tutti il prodotto di una cultura che non contempla un conflitto vero». E ancora, «sembrano non aver esperienze esistenziali, non aver la capacità di discernimento: inteso come discernimento kantiano o alla Hannah Arendt, cioè nel senso di saper prendere decisioni pur sapendo di sbagliare.
Questa mancanza fa sì che non siano capaci di capire che la scelta è sempre e soltanto tra il male assoluto e il male minore». Insomma, Diner, studioso anche della Shoah (e qui una lezione fondamentale per sapere che mai la scelta è tra il Bene e il Male) dice: per poter combattere bisogna avere un rapporto intimo con la storia. Ed è solo a partire da quel rapporto che è possibile assumersi delle responsabilità. E allora, che fare con l’Is? «Prima di tutto dobbiamo capire che hanno qualcosa di autentico. Non in termini teologici, ma perché le primavere arabe, cominciate con le barricate e il popolo che voleva decidere e partecipare, hanno finito per trasformare le barricate in confini identitari. L’Is è un esempio». E con questo il problema si riapre. Perché i confini identitari in genere prediligono la morte allo champagne.