Chi insulta un nero è razzista. Chi insulta un gay è omofobo. Chi insulta un "ciccione" è simpatico. Ma forse oggi non più. Anche se in Germana e Stati Uniti le donne guadagnano tanto meno quanto più pesano

«Il problema non è Siani e non serve scagliarsi contro di lui. Il comico ha fatto scalpore per aver irriso un bambino obeso a Sanremo, ma il problema non è la sua eventuale insensibilità, se mai è l’esatto contrario: quel che fa riflettere è che battute simili siano comuni e accettate a livello sociale. Rafforzando la diffusa idea negativa dell’obesità e lo stigma verso le persone sovrappeso, con tutti i suoi danni». Così la vede Daniele di Pauli, psicologo e psicoterapeuta che collabora fra l’altro con le associazioni Diamole Peso e CIDO (Comitato italiano per i diritti delle persone affette da obesità e disturbi alimentari).

«La ricerca scientifica ci dice che l’obesità è una malattia cronica che scaturisce da una catena di concause: predisposizioni genetiche, fattori psicologici e ambientali, pressioni familiari e sociali, che, come hanno mostrato molti studi, possono soverchiare gli sforzi individuali. Persino quel che mangiavano i genitori prima che una persona nascesse può influenzare il suo metabolismo e il suo peso. Un individuo quindi ha un controllo solo parziale sulla propria taglia: può tenerla sotto controllo, ma spesso non può arrivare a un fantomatico peso ideale» spiega Di Pauli.

Ma questo cozza con l’idea comune che attribuisce a una persona il perfetto controllo del proprio peso, e vede quindi l’obesità come un fallimento nel perseguire quell’ideale di magrezza che è sinonimo di bellezza, salute, desiderabilità, successo. Così l’obesità diventa una colpa, sinonimo non solo di bruttezza ma anche di disattenzione a se stessi, debolezza, fallimento. E questo giustifica lo stigma e la presa in giro. «Se infatti si presenta una persona come obesa per motivi fuori dal suo controllo, come un disturbo alla tiroide, lo stigma cala molto».

Innumerevoli studi, soprattutto statunitensi, documentano quanto siano diffusi questi pregiudizi,  anche in modo sottile, fra chi non insulterebbe mai un «ciccione» ma, senza rendersene conto, si comporta diversamente nei suoi confronti. In alcune casistiche, per esempio, persino i medici tendono a dedicare meno tempo e prescrivere meno controlli ai pazienti sovrappeso a parità di quadro clinico. O, per fare un altro esempio, sia negli Stati Uniti sia in Germania le donne – bersaglio preferito dello stigma sul peso – a parità di mansioni guadagnano tanto meno quanto più pesano, non soltanto se sono sovrappeso ma già soltanto passando dalle taglie magre a quelle ordinarie.

Sono evidenti quindi i danni non solo psicologici ma anche materiali dello stigma, praticamente in ogni fase della vita di chi ne è colpito. Già i bambini di tre anni sono meno propensi a indicare un compagno sovrappeso come amico. E dal rischio di esclusione sociale fino al vero e proprio bullismo, le conseguenze si trascinano dall’infanzia all’adolescenza e all’età adulta, compromettendo per esempio, a parità di condizioni familiari e quoziente intellettivo, gli esiti scolastici.

«Sempre negli USA, uno studio recente fra oltre 1500 studenti ha mostrato che quella sul peso era la prima causa di prese in giro. Bambini e ragazzi, con la loro personalità in costruzione, sono particolarmente vulnerabili, e tutto un filone di ricerche lega lo stigma sugli adolescenti a un maggior rischio di depressione, disturbi dell’immagine corporea, ansia, bassa autostima, e nei casi più estremi anche tentativi di suicidio. Quindi con loro bisogna stare ancora più attenti: senza creare allarmismi, va però ribadito come sia inaccettabile fare battute, specie in TV. Anche se non tutti ovviamente sono vulnerabili, e magari il bersaglio diretto dello scherno non ne risente affatto, l’irrisione pubblica può far male a tanti altri e contribuisce ad alimentare lo stigma» spiega Di Pauli.

Sia in Occidente, sia in altre culture dove il pregiudizio si sta diffondendo solo ora, scalzando antiche visioni della grassezza come valore positivo, la rappresentazione mediatica della magrezza e dell’obesità gioca infatti un ruolo centrale nel perpetuare lo stigma. «Anche in buona fede. Succede di vedere articoli corretti ed empatici nei contenuti, ma con foto di un obeso che lo ridicolizzano in atteggiamenti stereotipati, anziché nelle attività ordinarie come una persona qualsiasi» osserva Di Pauli.

Forse però anche su questo piano, grazie anche agli sforzi di chi combatte lo stigma, qualcosa inizia a cambiare. «Quel che mi ha sorpreso non è la battuta di Siani, ma la quantità di reazioni indignate che ha sollevato sul web e sui giornali» dichiara Francesco Baggiani, pedagogista impegnato sul tema e autore del libro «P(r)eso di mira - Pregiudizio e discriminazione dell'obesità» (editore Clichy, 2014). «Qualche anno fa l’episodio sarebbe passato inosservato o sarebbe stato visto con simpatia. Forse pian piano qualcosa inizia a smuoversi».

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