Nel mio caso era iniziato tutto nel 2006. Gli uomini dell’intelligence mi avevano messo a disposizione un software per verificare che i dati prelevati dalla Hsbc Private Bank fossero completi e utili ai magistrati che si sarebbero occupati del caso.
E visto che in banca non avevo accesso a dati sensibili, dovevo identificare le persone che disponevano di quelle informazioni e indicarle agli agenti dei servizi. Toccava a loro poi agganciarle e convincerle a collaborare. E questo è ciò che è successo a partire dal 2007: non ero io a prelevare i dati dall’archivio della banca e a inserirli in un cloud, dove erano memorizzati, ma altri dipendenti della Hsbc.
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A me spettava la responsabilità di verificare ogni giorno ciò che era stato immagazzinato, cosa mancava e quali elementi in più si potevano ottenere. L’archivio era stato alimentato con nuovi dati fino al febbraio del 2008, quando era stato bloccato per ragioni di sicurezza. Da allora erano passati dieci mesi.
Alle quattro del mattino, quando arrivò la chiamata, la voce confermò che c’erano due macchine pronte in un

Non volevo rassegnarmi ma reagire, anche perché desideravo un mondo diverso per mia figlia. Non volevo che crescesse in una realtà nella quale il valore del denaro, della sopraffazione del più forte sul debole, del costante aggiramento delle regole erano la normalità. Mia figlia ha bisogno di attenzioni e di cure costanti a causa di un deficit genetico. Guardandola pensavo con tenerezza al suo futuro e a volte con mia moglie progettavamo di lasciare la Francia e di trasferirci nella Polinesia, in un ambiente dove nostra figlia non sarebbe stata oppressa dalla competizione esasperata e dalla discriminazione. E dove, soprattutto, sarebbe stata circondata da valori come la solidarietà e il senso di comunità. Sentivo di dover fare qualcosa per lei e per le persone come lei. Avrei dato il mio contributo combattendo contro un sistema bancario che favoriva la corruzione e l’evasione fiscale e forniva ai ricchi gli strumenti per eludere le tasse, prosciugando le risorse che gli Stati destinavano ai più deboli e ai più poveri.
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Non sono un pazzo e sapevo perfettamente che non avrei certo cambiato il mondo. Credevo però di poter avviare una trasformazione che, allargandosi pian piano, avrebbe potuto sortire effetti positivi. Volevo raccontare all’opinione pubblica e ai magistrati come funziona il sistema, portando le prove. Il materiale della Hsbc fu prelevato nel giro di pochi mesi nel corso del 2007. La rete era in contatto anche con magistrati francesi e italiani, sebbene io non parlassi direttamente con loro. Avevo rapporti con poche persone, ma sapevo che alle nostre spalle c’era una corposa organizzazione. La regola di base per garantire la nostra sicurezza era che ciascuno di noi conoscesse poche persone della rete, pur disponendo delle informazioni necessarie e sapendo precisamente che cosa fare.
La collaborazione con l’Italia cominciò a metà del 2009, dopo il mio colloquio con il direttore della Dnef (gli ispettori fiscali francesi, ndr), quando era ormai chiaro che le investigazioni in Francia erano state insabbiate. In quel periodo la vicenda dei documenti della Hsbc sequestrati nel mio computer non era ancora di dominio pubblico e il mio caso, almeno ufficialmente, non esisteva per gli italiani. Lavoravo nel segreto più assoluto con la Guardia di finanza, prendendo precauzioni per evitare che qualcuno venisse a conoscenza della mia collaborazione. Ci trovavamo nelle caserme dove, per ragioni di sicurezza, spesso la notte mi fermavo a dormire.
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Quando gli incontri avvenivano in un hotel indossavo un cappello per non farmi riconoscere dalle videocamere. I miei spostamenti in Italia erano organizzati dagli uomini con cui collaboravo. A loro spiegavo come lavorava la banca, mentre aspettavamo di ottenere per via ufficiale, attraverso la richiesta di aiuto giudiziario, le informazioni complete sui conti della Hsbc, ma la Francia ha sempre rifiutato di consegnare all’Italia tutta la documentazione in suo possesso, limitandosi a trasmettere solo i dati relativi ai clienti classificati come italiani. Andavo spesso in Italia, soprattutto a Torino, e lavoravo in prevalenza per spiegare agli investigatori i sistemi della banca, fino a quando, dall’inizio del 2010, la Guardia di finanza ricevette le prime liste grazie agli accordi di cooperazione amministrativa internazionale, e allora cominciai a occuparmi anche di quelle informazioni. Poco tempo dopo, la Procura di Torino ebbe i file da Nizza. Fu in quel periodo che in Italia si parlò per la prima volta della Lista Falciani (…).
La Guardia di finanza ha lavorato intensamente sui dati della lista. Tutto si è mosso a un livello informale e segreto ed è stato realizzato un lavoro con i servizi di investigazione su una parte ben precisa dei file della Hsbc. Gli investigatori cercavano soprattutto informazioni sui mafiosi e le hanno trovate.
A metà del 2011 alcuni funzionari dei servizi segreti italiani mi chiesero se i dati contenuti nel cloud, che non erano mai stati diffusi prima di allora, potevano essere utilizzati almeno a livello di intelligence. Mi fecero diverse proposte di lavoro, perché, una volta acquisiti i dati, bisognava sapere come analizzarli, e solo io ero in grado di farlo.
Spiegai che avrei potuto continuare ad aiutarli come avevo sempre fatto, senza ricevere uno stipendio. Non avevo molti soldi, ma lavoravo già all’Inria di Sophia-Antipolis e volevo essere libero di prendere le mie decisioni senza condizionamenti. Soprattutto non mi andava di essere alle dipendenze di un governo. Nonostante la mia disponibilità, l’ipotesi fu abbandonata perché da Roma era arrivato uno stop: quei dati non si potevano né acquisire né analizzare. Era la fine dell’estate del 2011. In Italia il premier era Silvio Berlusconi e il ministro dell’Economia Giulio Tremonti.