
Un ritratto a tutto tondo, con oltre cento opere, di uno tra i più grandi pittori di ogni tempo e punta di diamante del Siglo de Oro. Ma il sivigliano Diego Rodríguez de Silva y Velázquez, nato nel 1599 e morto a Madrid il 1660, non è un fungo nato dopo una notte di pioggia: Siviglia era città prospera, con una comunità artistica rilevante e Diego è attorniato in mostra da un notevole numero di artisti che dagli esordi fino alla morte fecero parte o entrarono nella sua cerchia.
[[ge:rep-locali:espresso:285150296]]Si è scritto infatti di un Rinascimento sivigliano. A cominciare da Francisco Pacheco, di cui sposerà la figlia Juana, nella cui bottega lavorò per sei anni fino al 1617: pittore naturalista di sicura professionalità, Pacheco fu uomo colto e pubblicò numerosi testi teorici. In tal senso fu un vero maestro e nel suo atelier, accanto a Diego, si formò pure Alonso Cano: di qui l’amicizia tra i due che in esordio si distinguono solo per la particolare sensibilità di ciascuno. A Siviglia era ben nota la pittura fiamminga e italiana che ebbe sul giovane Diego una crescente influenza. Né va trascurata quella di José de Ribera le cui tele ebbero forte impatto nell’opera del giovane. Il verismo, l’attenzione al quotidiano picaresco, la pennellata accurata e liscia, lo sfavillio di luci e ombre d’ascendenze caravaggesche i cui echi erano giunti in Andalucía.
Pacheco introdusse Diego alla corte di Madrid e, dopo i primi tentativi infruttuosi, nel 1623 fu nominato pittore reale. La rimarchevole distanza tra la pittura del suocero e quella di Velázquez è ben chiara nella produzione madrilena. E qui scatta lo stretto sodalizio con il re Filippo IV a cui Jonathan Brown dedica una prefazione splendida che rende al sovrano il ruolo centrale che ebbe non solo per Diego e Pieter Paul Rubens - a Madrid dal settembre del 1628 all’aprile del ’29 - ma per la politica mecenatesca che condusse nell’impero di Spagna all’apice della potenza.
Ruolo condiviso con il conte-duca d’Olivares che chiamò a Madrid Alonso Cano e lo elesse a pittore personale: il conte-duca - splendidi i ritratti a cavallo - fu congedato dalla corte nel 1643 e John H. Elliot scrisse una monumentale monografia i cui echi rintoccano nel testo sui rapporti tra Francia e Spagna.
Dunque dalla prima produzione di genere (“La taverna”, “La mulatta”, “I tre musici”) e religiosa (superbo il ritratto di Madre Jéronima de la Fuente, 1620), fino ai santi Tommaso, Pietro penitente, Paolo e il ritratto magnifico del poeta Luis de Góngora (1622) che precedono l’arrivo a Madrid. Velázquez salì tutti i numerosi gradini di pittore e di funzionario ricoprendo i ruoli i più diversi e prestigiosi fino a percepire 5000 ducati l’anno, un compenso che non aveva equivalenti.
Il suo cursus honorum giunse alla concessione della croce di Cavaliere dell’ordine di Santiago - riservata solo alla nobiltà “de sangre” - e la qualifica di “hidalgo” negli ultimi due anni della sua vita. Il ritratto di Filippo IV a figura intera in veste di cacciatore o in tenuta di campagna, quello a mezzo busto - al di là della valentia della pennellata - testimonia la confidenza del pittore con il sovrano. Lo stesso si dica dei numerosi amorevoli ritratti dell’infante Baltasar Carlos dalla prima età fino a quello a cavallo di un pony o in armi. Solo l’infanta Maria Teresa d’Austria avrà una pari attenzione che culminerà nell’insuperata tela de “Las Meninas” che fece dire a Édouard Manet d’esser di fronte al “pittore dei pittori”. Opera inamovibile dal Prado, si vede nella riduzione di Dorset Kingston Lacy (1658-67), e due opere inedite “L’educazione della Vergine” e il ritratto dell’inquisitore Sebastian de Huerta. L’insuperato pittore di corte conferisce ai ritratti degli Asburgo una sobria fermezza: ma nella maturazione di Velázquez c’è un prima e un dopo.
Diego a trentuno anni decide di venire in Italia, il soggiorno è di tredici mesi: il credito del primo pittore di Filippo IV era tale che entrò nella corte di Urbano VIII, sebbene papa Barberini perseguisse una politica filofrancese. Si schiusero dinanzi ai suoi occhi i mirabilia di Roma: antichità, palazzi,chiese, giardini, i grandi maestri del Rinascimento e il sorgente Barocco. Guido Reni, Guercino, Pietro da Cortona, Poussin, Claude Lorrain naturalmente Annibale Carracci, con Caravaggio e Tiziano che già conosceva.
Fu ospite in Villa Medici e dipinse il mirabile piccolo capolavoro del giardino di cinta con una porta di legno malandata con alti cipressi. La fucina di Vulcano e il Marte sono tra le tele più italianizzanti: la prima è forse un’allegoria della parola, incarnata da Apollo che irrompe nella scena col capo cinto d’alloro: le composizioni si fanno più libere e dinamiche, la luce e il colore inondano le tele.
Rientrato a corte il pittore è sommerso dagli impegni di ritrattista e dalle commesse reali, ma nel 1634 dipinge la grande tela con sant’Antonio abate e san Pietro nel deserto. Un paesaggio in primis, in cui è lampante l’impatto con la pittura veneziana e soprattutto con il san Gerolamo di Lorenzo Lotto: un tema classico della pittura sacra diviene così una scena paesaggistica di grande suggestione.
Velázquez affronta ogni genere: dalla pittura di storia e mitologica a quella sacra, dalla ritrattistica reale a quella destinata all’esigente cerchia di dignitari, notabili e amici. Dal 1648 ai primi del 1651 il pittore tornerà in Italia, per un soggiorno assai più lungo: la missione ha per scopo di acquistare dipinti per la pinacoteca dell’Alcazar di Madrid.
Il pittore è ormai celeberrimo: il ritratto di Innocenzo X (1650) è un’icona imperitura non solo del Siglo de Oro. Una tela in cui la spietata fisiognomica, l’ardente rosso della mantella e del seggio lasciano un segno indelebile. Ritrae il cardinale Pamphilj, monsignor Massimo e altri. La vita a Roma scorreva così felicemente che il re dové sollecitarlo ripetutamente perché rientrasse in patria. Dové rinunciare con rammarico a Parigi, ma a Roma aveva avuto modo di vedere francesi, fiamminghi e tedeschi. Forse al rientro dipinge uno dei suoi tanti capolavori, “La Venere allo specchio” (1647-51), in cui distilla con una superlativa maestria la lezione di Tiziano, uno dei pittori più amati alla corte di Madrid che aveva ritrovato a Venezia assieme al Tintoretto di San Rocco. Accanto alla Venere c’è la statua dell’Ermafrodito dormiente del Louvre che ci fa capire quale effetto abbia avuto su di lui la tradizione dell’antico. Dolcissima la silhouette del corpo della dea che riflette il suo volto nello specchio retto da un amorino.
L’effetto flou dello specchio si ritroverà ne “Las Meninas” e rimane uno dei misteriosi enigmi che questo genio ci offre. Ma la Venere è qui, prestito generoso del Prado. Di Juan Bautista Martinez del Mazo ci sono oltre venti tele e molte altre di allievi che aprono il ventaglio del Siglo de Oro. Prima di andar via sono tornato indietro per sostare a lungo sull’Autoritratto (1650). Uno sguardo fulminante che ritorna, frontale, in “Las Meninas”, quando il pittore osa rappresentarsi in una medesima tela con i sovrani che giungono dal fondo mentre è intento al cavalletto. Dove essi, che provengono dal fondo della sala, sono solo riflessi nello specchio.