Giorno dopo giorno ha diviso il suo tempo tra la gravidanza della moglie-collega Cecilia Alemanni e lo studio della potenza iconica della maternità attraverso tutto il Novecento. Impresa della Fondazione Trussardi da portare in scena nei ben duemila metri quadri del piano nobile di Palazzo Reale a Milano (dal 26 agosto). Tanto potente è stata l’esperienza che, in modo del tutto inusuale, nel saggio in catalogo Gioni si lancia in un vero e proprio outing: «Devo confessare che scrivo a pochi mesi dal diventare padre per la prima volta e non c’è dubbio che la mostra sarebbe stata diversa, fosse nata anche solo qualche mese più tardi».
[[ge:rep-locali:espresso:285161865]]Ma il privato è politico, si diceva in tempi di femminista autocoscienza. E Gioni questo lo ha capito bene. Ha lavorato sui sacri testi da “Nato di donna” di Adrienne Rich a “Sputiamo su Hegel” di Carla Lonzi, fino al “Secondo sesso” di Simone de Beauvoir. Ha rivisitato la rabbia e il desiderio degli anni che a metà del XX secolo hanno messo in discussione ruoli e parti, dalle cucine alle camere da letto, e grazie a tutto questo (e probabilmente anche grazie al confronto con la vigile compagna) non ha messo al mondo una galleria di ritratti trans-generazionali di mamme e figli. Tutt’altro: né nonne né Madonne, ma una scrittura visiva che sconfina in un affresco storico, sociale e politico sul rapporto uomo/donna nella cultura occidentale dello scorso secolo, dove il fulcro è da sempre nel controllo della maternità. O meglio: nel conflitto fra potere dell’uomo e potenza della donna.
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Non c’era pace neanche prima, quando i dadaisti grazie alle macchine sfornavano parti meccanici perché «le macchine non hanno madre» e i Surrealisti (affetti da grave machismo) la occultavano preferendo le tette strizzate nei bondage di Hans Bellmer, le donne uccello di Max Ernst o i nudi fatti a pezzi da Magritte.
Bisogna aspettare la fine del secolo per ritrovare un po’ di tenerezza nella muscolosa mamma tatuata di Julian Opie, o nel “Post partum document” di Mary Kelly che lo fotografa a frammenti, tanta è la meraviglia nello scoprire di aver partorito lei quella meravigliosa piega di un orecchio o la perfezione dell’unghia. Perché in fondo Gioni la mostra l’ha voluta così: «Una sorta di “psicostoria” lunga un secolo», ci dice citando Aby Warburg, «ma anche un album di famiglia che dice molto non solo sui nostri parenti ma sul nostro paese».
Un album che, opera dopo opera, parla «non tanto della donna che dà vita al figlio, ma soprattutto della donna che dà a se stessa una nuova vita». È l’effetto della paternità consapevole che ci convince che, appunto, «la mostra sarebbe stata sicuramente diversa fosse nata qualche mese più tardi». E gli “special thanks” vanno alla mamma del piccolo Gioni.