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A conclusione dell’incontro nella sua spaziosa e confortevole sala riunioni, sono stato accompagnato all’Unità speciale, dove avrebbero dato seguito pratico al mio caso. Le scrivanie di quell’ufficio si susseguivano solitarie in file interminabili. Anche se l’ora di pranzo era già passata da un po’, di agenti ce n’erano pochi. In certi momenti, nella sala d’attesa dell’ufficio della lotta contro le mafie nel quale mi avevano lasciato ad attendere, calava un silenzio più profondo che in un tempio buddista. La mia spedizione nel mondo burocratico era finita per quanto riguarda il capitolo efficienza: da quel momento in poi tutto si è svolto al rallentatore. Ad eccezione, per essere precisi, della ricomparsa dopo un po’ dell’elegante maggiordomo del sotto-procuratore che con un sorriso affabile ha poggiato per me sul tavolino della sala d’attesa un piatto con dei panini. Ogni tanto un agente entrava e usciva con delle enormi mappe sulle quali erano attaccate delle foto di uomini bruni dal nome arabo. Guardando con più attenzione ho visto che si trattava di persone sospettate di avere dei collegamenti con lo Stato Islamico in Messico.
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«Immagino che in questi giorni sarete totalmente presi dalla questione», ho commentato pensando agli atroci crimini commessi dal gruppo a Parigi. «Un po’, ma il vero sovraccarico di lavoro ci viene dalla ricerca del chaparrito», mi ha risposto l’agente. Chaparrito è l’appellativo che noi messicani diamo in genere alle persone di bassa statura. Il chaparrito cui faceva riferimento l’agente è quello di Sinaloa, dove ai chaparritos li chiamano chapos.
El Chapo è il nomignolo del narcotrafficante che a metà del 2015 è fuggito in maniera inverosimile dal più sicuro dei carceri di massima sicurezza, propinando al governo del presidente Enrique Peña Nieto una delle sue peggiori umiliazioni. Da quel momento, ricatturarlo è stata una priorità tanto per il governo messicano quanto per quello degli Stati Uniti. «Stiamo chiudendo il cerchio. Lo prenderemo grazie alle sue debolezze», ha detto l’agente. «Quali debolezze?», ho chiesto. «Le donne». La risposta è suonata seria come una sentenza e l’agente non ha più voluto parlare del tema. Il tempo nella sala d’attesa passava senza che arrivassero gli impiegati che dovevano occuparsi di me. Tre ore più tardi - era già notte - lasciavo il bunker della polizia con l’impegno di ritornare il giorno dopo per rimettermi in attesa dei funzionari incaricati di espletare la pratica necessaria affinché lo Stato messicano avvii la ricerca di una delle 25 mila persone scomparse con tanto di denuncia ufficiale.
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L’HOTEL A ORE CHIAMATO “DOLCE”
Dopo la fuga da film dal Penitenziario di massima sicurezza dell’Altiplano attraverso un tunnel, Joaquín Guzmán Loera, alias El Chapo, si è rifugiato in una zona di montagne basse delimitata dagli Stati di Sinaloa, Durango e Chihuahua, dove è rimasto per sei mesi circondato da guardie e da paesani delle piccole fattorie sfuggendo per sei mesi a un operativo di ricerca condotto dalla Marina armata.
All’inizio di gennaio 2016, pochi giorni dopo aver compiuto i 61 anni di età, El Chapo ha lasciato il suo rifugio segreto per recarsi nella città di Los Mochis, nel municipio di Ahome, Sinaloa, dove è stato arrestato venerdì 8 gennaio dopo un inseguimento lungo i tombini che si è concluso in un hotel a ore chiamato “Doux” (dolce, in francese).
Perché il capo del cartello di Sinaloa aveva abbandonato la sua zona di sicurezza nella montagna dove sembrava impossibile che lo arrestassero? Fino ad oggi non è del tutto chiaro. Si ipotizza che il suo efficiente team di ingegneri avesse ultimato diversi nuovi corridoi e tunnel per completare la vasta rete di abitazioni urbane tra le quali El Chapo avrebbe potuto muoversi passando sottoterra e dunque pensasse di non poter essere acciuffato. L’altra ipotesi è che volesse siglare un importante patto con il capo di un cartello rivale. La versione più diffusa è, tuttavia, che il capo abbia corso il rischio di abbandonare il suo rifugio nella montagna inseguendo le donne. Prima è circolata la voce partita dalle autorità che egli volesse riunirsi con la moglie Emma Coronel, una ex reginetta di bellezza di 26 anni, madre di María Joaquina ed Emali Guadalupe, le gemelle figlie di El Chapo nate meno di cinque anni fa a Los Angeles, California. Questa versione poi è stata modificata. Dal palazzo è filtrato che la donna per la quale El Chapo aveva abbandonato la sua zona protetta era Kate del Castillo, una famosa attrice messicana protagonista de “La Regina del sud”, una serie televisiva ispirata al romanzo di Arturo Pérez Reverte su una donna che dirige un cartello della droga.
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La svolta è arrivata dopo che l’attore hollywoodiano Sean Penn ha rivelato alla rivista “Rolling Stone” che prima della cattura del boss, egli lo aveva incontrato nella clandestinità proprio grazie alla mediazione dell’attrice messicana, presente anch’essa all’incontro tenutosi in una zona della montagna dove il narcotrafficante aveva un suo rifugio.
Questa accusa ufficiale contro Kate del Castillo è stata lanciata dopo la pubblicazione dell’intervista di Sean Penn a El Chapo che ha tolto lustro alla versione trionfalistica del governo messicano sulla nuova cattura del fuggitivo. C’è di più: le autorità hanno anche fatto capire che l’attrice messicana era controllata dal 2014, perché i suoi contatti con El Chapo erano noti da allora. Lo stesso Penn ha confermato nel suo articolo i rapporti tra Kate ed El Chapo, aggiungendo che i due mantenevano una corrispondenza tramite un telefonino BlackBarry e dei messaggi scritti.
Il capo del narcotraffico più famoso del mondo scrive lettere con carta e penna? Il dubbio appare logico, tanto più se si considera lo stereotipo costruito nel tempo attorno ai narcotrafficanti. Nel caso di El Chapo, se si tiene conto dei precedenti, al boss piacciono gli scambi epistolari. Zulema Hernández, che stava scontando una detenzione nel penitenziario Puente Grande per rapina a mano armata e che era stata fidanzata del capo del cartello di Sinaloa, a un certo punto ha rilasciato un’intervista allo scomparso giornalista Julio Scherer García. Oltre a concedergli l’intervista, Zulema - bionda, trentenne, alta 1,75 e tatuata: un pipistrello su una spalla e un unicorno sulla gamba destra - aveva mostrato al fondatore della rivista “Proceso” le lettere che El Chapo le aveva mandato lungo tutto il 2000, l’anno precedente alla sua prima fuga da un carcere messicano considerato di massima sicurezza.
In una delle lettere scritte da El Chapo si legge: “Ciao, amore della mia vita! Zulema, tesoro, ho pensato a te in ogni momento e voglio credere che tu sia felice e allegra perché ti stanno per trasferire, per questo, amore, scrivendoti questa lettera, lo faccio con grande entusiasmo e con molto piacere, per te, perché lì nell’altro penitenziario starai molto meglio che qui, perché avrai più spazio, più (libertà di) movimento e tempo quando ti visita la tua famiglia. Quando si ama qualcuno come io amo te, cuore mio, si è felici quando la persona amata sta per ricevere una buona notizia, e anche se io qui resterò qualche giorno ancora, il tuo trasferimento mi riempie di emozione, per te personalmente in questo momento, ma anche per tutta la tua situazione legale in seguito, perché, nota bene, è importante che ora si risolva la questione della tua libertà, che tu non stia in un centro di massima sicurezza, perché quella cosa influisce molto. Sai bene in quali condizioni ci troviamo noi detenuti nei Centri federali per il riadattamento sociale, e per questo è importantissimo questo trasferimento che sarà anche il primo passo verso l’obiettivo principale: riuscire a capire come riavrai la tua libertà. E ci riusciremo, vedrai. Molto presto godremo della gioia di essere entrambi a piede libero e insieme, che è la cosa più bella in assoluto. Amore, non stare in ansia e non angosciarti per il cambiamento, l’avvocato ha già le istruzioni perché appena sarai stata trasferita, ti facciano visita per verificare che cosa ti occorre e fornirti le risorse affinché tu ti sistemi bene e non ti manchi niente, solo pensa che peggio di qui non sarà, quindi tutto è favorevole.
«Bellissima mia, se prima che ti trasferiscano riusciremo a vederci (me lo auguro, forse domani) vorrò darti un dolce bacio e stringerti tra le mie braccia per conservare con me il ricordo ogni volta che penserò a te e così poter resistere alla tua assenza finché Dio non ci permetterà di tornare ad unirci in altre condizioni e in un luogo che non sia questo». Firmato: «JGL».
Che tipo di corrispondenza ha mantenuto il boss con l’attrice? Kate del Castillo non ha fornito una versione ufficiale sulla sua relazione con El Chapo, anche se nel mondo dello spettacolo gira voce che oltre a un film, del Castillo abbia in mente di pubblicare un libro sulla loro relazione, ma poiché ha alle costole le autorità messicane, è difficile che ciò avvenga.
Quel che si sa è che Zulema, la donna cui El Chapo mandava lettere d’amore scritte di proprio pugno, è stata in seguito ritrovata morta – travolta da un’automobile in una stradina – coperta da un telo rosa con la testa e i piedi avvolti in nastro da imballaggio accanto al cadavere di un tale Julio César. Secondo il referto del Servizio medico forense, entrambi erano stati soffocati e uccisi con uno sparo alla testa. Il referto menziona anche sul corpo di Zulema diversi tagli di coltello a forma di lettera “Z”.
LE 50 MILA ROSE
La prima moglie di El Chapo Guzmán è stata Alejandrina Salazar. Con lei il boss messicano ha messo al mondo Iván, Alfredo, César e Alejandrina. Poi ha sposato Griselda López con la quale ha avuto quattro figli: Édgar, Joaquín, Ovidio e Griselda. La sua attuale compagna è Emma Coronel, madre delle gemelle María Joaquina ed Emali Guadalupe. Stando alle autorità, le altre donne con le quali il capo del cartello ha avuto dei figli sono Nancy Bravo (tre), Estela Peña (due), Lucero Sánchez (due) e Neri García (uno).
Di pari passo con la sua fama di donnaiolo, El Chapo è noto a Sinaloa per essere un padre che non priva di nulla i suoi discendenti. Negli ultimi anni, migliaia di padri messicani hanno perso i figli in una nebulosa di violenza ufficialmente chiamata “guerra narco”. Nello stesso periodo, come altri giornalisti, ho scritto diversi articoli su queste vittime, per la maggior parte persone umili.
Una cosa eccezionale successe al funerale, a cui presenziai, di Édgar Guzmán, uno dei 18 figli del Chapo, assassinato a 23 anni, l’8 maggio 2008 da un commando in un centro commerciale a Culiacán. Il feretro nel quale riposava il corpo del giovane studente di Amministrazione di imprese rimase per tutto il giorno della veglia circondato da gigantesche corone di rose. «Abbiamo venduto otto corone funebri al prezzo di 20.000 pesos ciascuna. Ognuna era composta da 1250 rose rosse. Erano così grandi che non passavano dalla porta», mi disse poi un dipendente dei Fiorai Padilla, indicando una porta alta più di due metri. Anche altri negozi di fiori vendettero quel giorno corone altrettanto enormi. O persino più grandi ancora, vendute a 35.000 pesos, tra cui una da 2.000 rose rosse. Quel giorno il viavai nell’impresa di pompe funebri San Martín fu incessante. A un certo punto sono arrivati persino nove grandi camion aperti dietro carichi di rose per l’addio al figlio del capo del cartello di Sinaloa.
Nei giorni successivi, pubblicai sul giornale un reportage intitolato “Le 50.000 rose”. Il mio pezzo ispirò una canzone dallo stesso titolo che il cantante Lupillo Rivera interpretò con voce accalorata ed enfatica (non ho mai ricevuto le royalty).
Quel crimine rappresentò uno spartiacque nella storia del narcotraffico messicano. I giornali di Sinaloa non ebbero il coraggio il giorno dopo di dare la notizia nonostante il fatto fosse chiaramente documentato. Difatti, il sangue del figlio del capo era ancora umido per terra quando arrivarono i primi reporter la notte dell’8 maggio. Il parcheggio del centro commerciale era pervaso dall’odore penetrante della polvere, come quello dei fuochi artificiali. Édgar Guzmán si era messo a correre, ma i sicari da tre pick-up gli avevano sparato a ventaglio più di 300 colpi da 10 metri di distanza. Non si trovò alcun proiettile sparato dal figlio di El Chapo o dai tre giovani che lo accompagnavano e che furono anch’essi massacrati. Buona parte delle pallottole e un proiettile di un bazooka con il quale i sicari conclusero la missione andarono a conficcarsi nei muri di una officina di riparazioni auto. Le due telecamere di sicurezza dell’officina registrarono la sparatoria. Nelle immagini si vede solo un forte bagliore e si sente una tempesta di spari.
I dipendenti se ne erano andati mezz’ora prima dopo una giornata di lavoro. Per settimane poi dovettero lavorare tra muri perforati dalle pallottole. Il soffitto non fu mai riparato del tutto dopo lo sparo del bazooka che lasciò un buco di 50 centimetri. Nel parcheggio, proprio dove cadde il figlio di El Chapo, il giorno dopo c’erano delle candele che furono accese tutti i giorni seguenti trasformando il luogo in un cenotafio.
I resti di Édgar Guzmán sono stati tumulati a Jesús María, un paesino nei dintorni di Culiacán dove suo padre si era recato qualche giorno prima di essere di nuovo arrestato dal governo messicano nei primi giorni del 2016.
MA QUESTO NON È UN FILM
Sean Penn non è il primo attore di Hollywood che si rende protagonista di uno scandalo legato ai cartelli della droga messicani. Negli anni ’70, l’attore Norman Gibbs - interprete di “French connection”, film con il quale Hollywood ha svelato il commercio internazionale di eroina asiatica via Parigi, e comparso pure nel famosissimo “Il Padrino” - fu arrestato con sette chili di cocaina nella valigia all’aeroporto di Los Angeles mentre scendeva da un volo proveniente da Acapulco, Messico.
Kate del Castillo non è la prima attrice messicana a subire una denuncia pubblica per affari poco chiari. La collega Angélica Rivera, moglie del presidente Enrique Peña Nieto, è stata costretta a dare spiegazioni, con un video su YouTube, dopo un’inchiesta giornalistica che aveva avanzato dubbi sullo strano modo in cui era entrata in possesso di una villa, acquistata da un’azienda che aveva ricevuto vantaggi dal governo con suo marito al potere. Poi la donna è stata costretta ad annullare l’acquisto della villa nota come “La Casa Bianca”.
Non si sa se Kate del Castillo risponderà alle critiche mossele con un video su YouTube, né se rinuncerà al suo progetto di produrre il volgare film che fa gola a Hollywood sulla vita di un megalomane.
Intanto, sembra che il “film” con il quale il Messico ha iniziato l’anno continuerà. Io, invece, continuerò a sperare che la Sotto procura specializzata in indagini sulla delinquenza organizzata si dia da fare per cercare le persone scomparse nei luoghi da me indicati, cosa che finora non ha fatto. La ricerca di 25.000 persone scomparse non sembra un argomento interessante per un film sui narcos (o sull’amore).
*Diego Enrique Osorno, 35 anni,
giornalista, scrittore e regista, è considerato tra i migliori autori messicani. Ha scritto cinque libri di cui due, “Z, la guerra dei narcos” e “Un cowboy attraversa la frontiera in silenzio”, pubblicati in Italia dalla casa editrice “La Nuova Frontiera”
traduzione di Guiomar Parada