Gli Stati Uniti chiudono l'era del primo presidente afroamericano. E devono scegliere il loro nuovo presidente tra due contendenti che non potrebbero essere più diversi. Simbolo di un'America sempre più divisa tra una classe bianca nostalgica del passato e tante minoranze, sociali o etniche, che vogliono nuovo spazio

Sull'orlo di una crisi di nervi. O meglio di identità. Questa è l'America che in queste ore è alle prese con il voto. E con una scelta che mai come oggi è profondamente esistenziale.

Non è vero che Hillary Rodham Clinton e Donald Trump siano i peggiori candidati presidenziali di sempre. Sono forse i più rappresentativi della società e della politica attuale degli Stati Uniti.

Hillary è la paladina di coloro che hanno voluto e amato un uomo come Barak Obama alla Casa Bianca. Un uomo delle “minoranze”. Un uomo colto. Un uomo sensato. Con il senno del poi, molto idealista e non altrettanto concreto. Ed è forse questo il motivo per cui Obama e consorte hanno fatto una campagna disperata per Hillary: lei, minoranza come lui, potrà portare a compimento quello che lui ha solo abbozzato. Sporcandosi le mani come lui non ha voluto fare. In altre parole: l'obiettivo è un'America dove i diritti di tutte le minoranze (demografiche o sociali che siano) siano rispettati davvero, quelli dei gay e degli afroamericani ma anche quelli, fino ad oggi sottovalutati, di donne e ispanici. Ovvero un'America profondamente diversa da quella di 50 anni fa, alla “Mad Men”, quando a dettare legge era un manipolo di uomini bianchi e benestanti.

Un'America non più identificata nel mito dell'uomo solo, che col sudore della fronte, fucile a tracolla, guadagna il pane e la libertà individuale, benedetto da Dio. Ma, invece, un'America “newyorkese e californiana”, in cui le chance di successo si conquistano con la determinazione e lo studio, senza bisogno di muscoli, in una nuova concomitanza, quando non commistione, tra cultura, politica, finanza e tecnologia. Un'America che vent'anni di globalizzazione hanno cambiato non solo demograficamente e culturalmente ma anche nei valori più profondi. E in cui in tanti non si ritrovano più.

Sono questi, i nostalgici di un mondo che ha forgiato la loro identità e che sta irrimediabilmente cedendo il passo, i grandi sostenitori di Donald Trump. Lui è l'uomo-spettacolo, il domatore di donne che è anche l'imprenditore scapigliato che spariglia le carte dell'inevitabile. Che non è preparato ma è dotato di istinto infallibile. L'uomo che dell'imprevedibilità ha fatto la sua fonte di forza insieme a una campagna negativa e anticonformista, tutta rivolta al passato, verso un Eden che non esiste più e che solo lui potrà riportare in Terra. Posti in fabbrica, supremazia del marito sulla moglie, limiti professionali imposti a chi non è “originariamente americano”, alt agli immigrati di fede islamica, facile capro espiatorio in tempi di Isis.
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E poi: fine della globalizzazione come l'abbiamo conosciuta, interscambio di merci e persone, e costruzione di muri contro l'altro in una sorta di protezione fisica e culturale da tutto ciò che potrebbe contaminare il “vero” spirito americano. Quello degli Anni 50, dei tostapane bombati e delle gonne a ruota e dei Martini serviti da donne adoranti alle sei del pomeriggio. Ma anche quello che imponeva le proprie merci all'estero e non era suddito della produzione asiatica e che non prevedeva un mondo multipolare con cui confrontarsi ma un'unica superpotenza indiscussa.

In questi decenni di globalizzazione è esploso però quel divario tra ricchi e poveri, che è sempre esistito ed è anche stato motore di sviluppo ma che è ormai diventato non solo squilibrio economico insopportabile ma anche insostenibile divario geografico, culturale e tecnologico. Milioni di persone si sono trovate improvvisamente fuori tempo e fuori gioco con una sinistra politica impegnata sì a rincorrere l'uguaglianza delle minoranze e il benessere di un astratto prodotto interno lordo ma cieca di fronte alla perdita di benessere familiare di una folta maggioranza in declino. Con nuovi multimiliardari che vivono in un universo parallelo rispetto ai milioni costretti a vendere casa per pagare il college ai figli. E che, per la prima volta, vedono la loro rabbia e la loro insoddisfazione difese da un partito, quello repubblicano, che, a parole, ha soppiantato la sinistra storica nella difesa del benessere di chi dai recenti mutamenti epocali ha perso o prevede di perdere.

I due candidati alla presidenza sono anche intimamente diversi: nella storia personale e nei valori.
Da una parte c'è una donna che lotta da una vita per ottenere la possibilità di influire nella vita politica del suo Paese. Una donna che, giovane e idealista, non voleva fare la politica del possibile ma “quella dell'impossibile”, come disse lei stessa nel discorso fatto il giorno della laurea; una donna più idealista dell'idealismo. Una donna che con gli anni e le lotte e gli attacchi personali ha dovuto imparare l'arte della mediazione e del compromesso, della rinuncia e della determinazione. È stata la prima moglie di governatore a non volere rinunciare al suo cognome di ragazza (per assumere quello del marito come è costume nell'America profonda) e che per questo è stata massacrata dalla stampa.
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La prima donna che abbia mai elaborato una politica sanitaria in un Paese dove la sanità è un lusso per pochi. E per questo accusata di comunismo. La prima ex first lady a decidere di fare politica da sola e farsi eleggere al senato nello stato di New York e, da allora, considerata fredda, falsa e calcolatrice. Nemica della stampa e amica di Wall Street. Ma che certamente non manca di determinazione. “Una che non molla mai”, come l'ha presentata più volte nei comizi Michelle Obama. Sconfitta alle primarie da Obama otto anni fa, prima ha pianto a dirotto poi si è rimboccata le maniche e sfoderato un sorriso. Ha accettato di fare da ambasciatrice nel mondo (come segretario di stato della presidenza Obama) e poi per quattro lunghissimi anni ha pianificato il secondo tentativo alla presidenza degli Stati Uniti.

Dall'altra parte c'è un uomo che è sceso in campo per un misto di divertimento personale e provocazione. Figlio di un ricchissimo imprenditore edile, imprenditore di scarso successo lui stesso e poi personaggio televisivo come giudice di una popolare trasmissione televisiva, non aveva mai davvero pensato alle elezioni americane fino a tre anni fa. Anzi, si era in passato dichiarato democratico.

Poi, tra il serio e il faceto, sull'onda della sua popolarità si è buttato in politica senza avere davvero un vera idea di dove andare e cosa fare ma cercando di intercettare la rabbia di una parte dell'elettorato americano che da otto anni non vota a destra. Niente che lo riguarda sembra scalfirne la popolarità tra i suoi sostenitori, né la mancata pubblicazione della dichiarazione dei redditi, né il disprezzo per immigrati e donne e nemmeno le ripetute bancarotte delle sue aziende che avrebbero dovuto fa sorgere il dubbio sulla sua effettiva capacità imprenditoriale.

È rimasta famosa la sua frase, «Potrei anche uccidere qualcuno sulla Quinta strada che mi voterebbero lo stesso», pronunciata quando ormai sentiva in pugno la candidatura presidenziale repubblicana. Ma, se perdesse, gli americani se ne ricorderebbero un'altra, pronunciata in chiusura di campagna e che rivela, più di qualsiasi altra affermazione, lo spirito e il senso di opportunità con cui Trump si è candidato: «Se perdessi questa campagna sarebbe il più grande spreco di tempo e di denaro della mia carriera».

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