Gli uomini non credono ai fantasmi. Le donne conversano con loro. «I fantasmi sono ponti: riconducono al passato, e lo rendono presente». La messicana Valeria Luiselli ha una spiccata familiarità con gli spettri: e non è solo effetto di un Dna latinoamericano, che rende gli spiriti parti del paesaggio d’ogni giorno. Ma di fantasia, riluttante ai confini: sia che tratteggi “La storia dei miei denti”, dove l’iperrealtà di un’asta di dentature è il giocoso pretesto per richiamare in vita miti, da Janis Joplin a Marilyn Monroe, sia che racconti la storia di una giovane madre che rimpiange la libertà d’ubriacarsi di poesia, l’ombra di ospiti misteriosi, che ne popolano la vita interiore, è un sottofondo costante: García Lorca, Emily Dickinson, Duke Ellington che applaude tra capriole di fumo. Atmosfere sospese, in grado di farsi strada nella mente dei lettori, e insinuare il sospetto più forte: quante vite ci sono, dentro ognuno di noi?
Luiselli, 33 anni, nata a Città del Messico, cresciuta in Sudafrica, newyorchese d’adozione, è così: una che semina dubbi. E accumula certezze. Come quelle della critica americana e inglese, letteralmente conquistata: da Granta a McSweeney’s, da The New Yorker a The New York Times, è considerata una delle voci più originali di questi anni. Il merito di averla fatta conoscere in Italia è della casa editrice laNuovafrontiera, che ha pubblicato “Carte false” (2013), “Volti nella folla (2015), “La storia dei miei denti” (2016). E ora Luiselli sarà tra gli ospiti di punta di Più libri più liberi (l’11 dicembre, ore 18, con Elena Stancanelli e Chiara Valerio).
«In “Volti nella folla” i fantasmi fungono da ponte per rivisitare l’idea della metropoli modernista e per riflettere sugli spazi urbani attuali», ribadisce: «Gli spazi messi a fuoco dalla letteratura di quell’epoca sono gli stessi in cui si muovono i personaggi: la metropolitana, in cui gli estranei convivono intimamente; i terrazzi condominiali, spazio semi-pubblico e semi-privato, da dove si osserva la città; o i tuguri e i bar malfamati, dove nascono amicizie e complicità. Fantasmi come Gilberto Owen, Ezra Pound, Nella Larsen o William Carlos Williams sono un ponte per ritornare alla letteratura di quell’epoca e pensare all’attuale funzione della letteratura».
Da dove vengono le storie?
«Non lo so. Ho idee e intuizioni. La maggior parte delle volte si rivelano banali o sterili e sfumano rapidamente. Ma quando trovo qualcosa che, esplorandola, cresce e diventa fertile, la inseguo e la porto fino in fondo. So che scrivo meglio quando scrivo da lettrice. Non tanto pensando al lettore, non voglio dire questo; quanto permettendo alla mia mente di muoversi allo stesso ritmo di quando leggo un libro che mi piace».
Un lettore cerca nella lettura evasione e riconoscimento. La protagonista di “Volti nella folla” è una donna che non sopporta di stare a casa, da sola. Si inventa una vita, una famiglia, ma è incapace di abitare il mondo che costruisce. Anche la scrittura nasce da mancanza d’aria?
«Non sempre. La scrittura proviene da luoghi diversi: la rabbia, la solitudine, la frustrazione, l’esasperazione, la speranza; ma a volte anche dalla stupidità, dall’arroganza, dalla vanità. Senza dubbio, come giustamente osserva, tutti quanti proviamo sempre, in misura diversa, un’incapacità di abitare il mondo che ci costruiamo: la famiglia, la routine di tutti i giorni, l’essere chi ci si aspetta che siamo. La scrittura può essere un modo per costellare di buche e prese d’aria il mondo che ogni tanto ci crolla addosso e ci soffoca».
E i rimpianti? Sono fonti d’ispirazione?
«I rimpianti sono autoindulgenti, poco fertili, ci ancorano al passato. Credo che la mia scrittura risponda al desiderio di immaginare molte vite possibili».
Il nomadismo, in lei, è evidente. Da dove nasce, ad esempio, il suo nome italiano?
«È eredità e fatalità, come tutti i cognomi. La mia famiglia paterna è originaria di un paesino nella Val Brembana, San Giovanni Bianco. Mio nonno, Cassio Luiselli, partì dall’Italia con una nave alla fine degli anni Venti, in cerca di fortuna, come tanti. Mi ha sempre affascinato pensare a un uomo di un paese remoto e minuscolo che va a finire nella Valle de Anáhuac, dove si estende la quasi infinita, complessa e caotica Città del Messico. Anche i suoi discendenti, come se l’impulso a emigrare fosse ereditario, hanno scelto la condizione di straniero come forma di residenza: molti di noi si sono sparpagliati in Paesi che non sono i nostri. Per svariati motivi, io ho risieduto in luoghi diversi come Seul, Pretoria, Pune, Madrid… e Venezia».
E qual è la sua patria? O si sente straniera?
«La sensazione di solida appartenenza a una patria non è mai stata il luogo migliore per scrivere romanzi. Serve a scrivere costituzioni, leggi, inni, cronache sportive; magari qualche poema epico».
«Il destino delle cose, e dei rapporti, è di rompersi o di sparire», dice. E delle storie?
«Viviamo nell’effimero, nella transitorietà del tutto, a velocità vertiginosa. Credo che lettura e scrittura siano un tentativo di impedire che le cose ci scivolino addosso, senza lasciare traccia. Le parole, sistemate nell’ordine esatto, producono una specie di bagliore, di luminescenza. Quando leggiamo una cosa bella, spunta qualcosa, un’emozione potente ma effimera. Sorge anche una sorta di necessità di trattenere quell’emozione. Sottolineiamo, copiamo, memorizziamo le parole che l’hanno prodotta: ma è impossibile, l’emozione si dissolve. Scrivere è un modo per recuperare quei momenti di bagliore».
Scrivere e leggere sono due atti dello stesso gesto. “La storia dei miei denti” ha una genesi simile: romanzo su commissione, è frutto di un lavoro con gli operai della Jumex.
«La Jumex è una fabbrica di succhi di frutta i cui proventi vengono in parte destinati all’acquisto di arte contemporanea. Mi interessava scrivere qualcosa che stabilisse dei ponti tra vari mondi - quello dell’arte, della letteratura, di una fabbrica, del mercato dell’arte, del pubblico estraneo all’arte contemporanea. Una volta a settimana, per mesi, ho inviato alla fabbrica una puntata del romanzo; gli operai la leggevano ad alta voce, la commentavano e la criticavano, e mi mandavano un file Mp3 con le registrazioni. La collaborazione con i lavoratori mi ha aiutato a capire e a prendere in considerazione temi che davo per scontati. La ricerca del libro si è concentrata sul modo in cui gli oggetti d’arte acquisiscono e perdono valore».
L’elezione di Trump solleva paure riguardo ai rapporti tra Usa e Messico. Come ha vissuto l’idea di un muro, lei che, senza Trump all’orizzonte, ha scritto che ogni muro è fatto solo per essere buttato giù?
«Trump è una malattia peggiore del cancro dell’estrema destra reazionaria, xenofoba e nazionalista che da alcuni anni ha metastasi per il mondo: l’Inghilterra della Brexit, l’attuale governo in Austria, il possibile governo di Marine Le Pen in Francia, il BJP in India, Erdogan in Turchia. Il muro promesso da Trump, di cui già esistono 560 chilometri, è solo un simbolo di quel mondo retrogrado che si oppone a un futuro inevitabile. Il muro esistente, peraltro, non ha mai impedito l’immigrazione verso gli Stati Uniti: ci sono tunnel, scale, buche, ogni genere di porosità. Tuttavia, la minaccia del muro è stata un simbolo forte nel discorso di odio di Trump. E di fronte alle umiliazioni e alla costante violenza di Trump nei confronti dei messicani, la mia intenzione è sempre stata quella, se pure avesse vinto quel personaggio che i media hanno alimentato e lasciato crescere come un Tamagochi diabolico, di rimanere qui, a New York. E, di fatto, qui resteremo. E a maggior ragione ora, con più voglia che mai di respingere l’odio e le dimostrazioni di violenza nei confronti di molte comunità, tra le quali la nostra».
Resistere è la funzione della letteratura?
«Quale altro dovere dovrebbe avere uno scrittore se non quello di assumersi la responsabilità di far sì che il linguaggio tossico e i discorsi di odio non sgretolino il tessuto sociale? Io faccio solo ciò che so fare, che non è molto. Scrivo di questi temi su media internazionali, lavoro come traduttrice volontaria al tribunale dell’immigrazione e, con un gruppo di studenti all’università, ho creato un’organizzazione che si chiama Tiia(Teenage Immigrant Integration Association). Niente di eroico, ma occorre integrare la nostra vita al tessuto più ampio delle comunità, attraverso azioni concrete».
ha collaborato Elisa Tramontin