C’è una nuova applicazione che recensisce ogni ?persona, come se fosse un prodotto. Scandaloso? No. Perché è il risultato dellla società modellata dalle corporation digitali

Siamo in un bar, una sera qualunque nel mondo immaginato da Julia Cordray. Per conoscersi, sapere immediatamente quanto “vale” ogni avventore, tutti usano una app: Peeple, di cui Cordray è ideatrice. Smartphone alla mano, i clienti - appena entrati - la lanciano. E sugli schermi brillano dei numeri. Uno è associato a ogni presente «entro un raggio di dieci miglia», dice Cordray, secondo tre categorie: dimensione romantica, professionale, personale. Sono “raccomandazioni”, giudizi creati da ogni utente - e disponibili a tutti - su come siamo. Secondo la startup, valutata per “Business Insider” 7,6 milioni di dollari, sarebbero utili in molti modi. Ai datori di lavoro che vogliono sapere se siete affidabili; ma anche ai potenziali partner, che potrebbero desiderare altrettanto.

Lo stesso scenario, in un mondo in cui Peeple diviene, come nell’ambizione di Cordray e della co-fondatrice Nicole McCullough, «l’esperimento sociale definitivo» e dunque l’erede di Facebook, si ripeterebbe in svariati altri contesti. Vuoi affittare una stanza su Airbnb? Sapere se la “personalità” dei vicini ha un punteggio elevato potrebbe essere determinante nella scelta. Una vettura su Uber? Meglio premurarsi che il pilota sia una brava persona - lo dicono anche le cronache. Ma Peeple non sarebbe solo il perfetto complemento della “sharing economy”. Se i giudizi della folla su una app sono l’unità di misura dell’io - «tutto ciò che importa è cosa gli altri dicono di noi», declama sorridente Cordray - non vorreste la babysitter, l’idraulico, il dentista con più “raccomandazioni” positive? E non vorreste lo stesso per trovare consorte? Domani chissà, magari perfino per soppesare le reali qualità di un candidato politico. Per ora non esiste una sezione apposita, ma c’è da scommettere arriverebbe presto - in caso di successo.

La realtà è ancora diversa dalla distopia di rating on line universale immaginata da Cordray con l’orwelliana definizione di “abbondanza per tutti”, l’era in cui è un’app a dare a ciascuno l’opportunità di «frequentare solo i migliori dei migliori». E si oppone. A dimostrarlo, la reazione disgustata di mezzo mondo al lancio, quando l’imprenditrice su Instagram levava il pugno commentando «San Francisco ti conquisterò». Ecco la «rivoluzione della positività»! Ecco il modo per verificare senza sforzo, in un tocco, le referenze di tutti! E il rischio che diventi lo strumento elettivo dei cyber-bulli, uno sfogatoio di ripicche di ex, malignità di concorrenti e sentenze inappellabili per pura cattiveria?

Nella Silicon Valley, patria di Peeple, agli investitori non era nemmeno venuto in mente, giura Cordray. Era il 30 settembre 2015, e la imprenditrice canadese, già impegnata nella caccia di talenti con 96 Talents e Career Fox, non sapeva che l’aspettavano settimane in cui l’Internet tutta non avrebbe fatto che mutarsi in un enorme collettore di disgusto, indignazione, rigetto circa la sua favolosa idea per migliorarne le sorti. Giorni in cui si sarebbe contraddetta su sostanzialmente tutto, a partire dal definirsi una app per diffondere amore e positività e dire, insieme: «Non vorrei la app riportasse solo cose positive, sarebbe inutile». E in cui Cordray non avrebbe mai spiegato ai critici perché, poi, ridurre l’esistenza umana, l’io e le sue diramazioni sociali, a una gogna digitale permanente.

Insomma, Peeple non era piaciuta davvero a nessuno. Anzi, i più la trovavano inquietante, disumana. Ciò che non è banale è chiedersi perché. Quello che secondo Brandwatch è stato «il peggior lancio di una app della storia», non è solo un fallimento spettacolare, talmente ingenuo da mettersi addirittura in mostra in una serie di sconcertanti video su YouTube - chiamati “Webisode” - che poi il duo ha infatti in gran parte rimosso. Momenti in cui si vede Cordray guidare una dune buggy a Melrose, in Montana, dopo un paio di whiskey - e insieme proclamare, salvifica: Peeple «cambierà le vostre vite. Spero per il meglio».

“Spero”? Se oggi Peeple raccoglie una media di recensioni sull’Apple Store di una stella e mezza su cinque per le 171 valutazioni ottenute, e prevedibilmente la app non insidierà affatto Facebook, è tuttavia anche perché per una volta ci ha mostrato, nuda, l’ideologia della Silicon Valley.

È lì infatti che l’abbondanza diventa efficienza a ogni costo, e le soluzioni sempre tecnologie. Lì che si può valutare il carattere di una persona come fosse un bed & breakfast, in un click. Lì che Cordray può di conseguenza pensare sia indubitabilmente buono definire la propria personalità una “moneta” da spendere nel mercato - on demand, ovviamente - della reputazione on line.

In questa logica i rapporti umani, per essere davvero “connessi”, devono replicare le condizioni di una “comunità” vera e propria, ciò che secondo le ideatrici di Peeple mancherebbe oggi al social networking e ci farebbe per questo sentire così “soli, insieme”, per dirla con la psicologa Sherry Turkle. Dobbiamo essere di nuovo un “villaggio”, una piccola comunità, e deve accadere grazie ai “social”: è Peeple, insomma, l’antidoto alla solitudine; l’azienda lo dice davvero.

L’idea di fondo non è inedita: trova piuttosto radici in Klout o servizi come Lulu e Face The Jury: «Il posto», scrive “Urban Dictionary”, «in cui vanno i ragazzini per mostrarsi cool»; oggi alzi la mano chi li ricorda. Soprattutto, il principio di farci guidare in scelte non solo di consumo, ma anche umane, relazionali, professionali da metriche reputazionali “partecipate”, su Internet, pre-esiste a Peeple. Ed è il cuore di Yelp, Tinder, Uber, Amazon: di quasi ogni cosa “social” si possa immaginare on line. Il problema è che, quando l’oggetto diventano le persone, si scambiano le dinamiche del sé con quelle dell’influenza in rete. E il risultato è un colossale abbaglio sulla natura stessa del comportamento e della psicologia umana. Promuovendo giudizi continui, istantanei, ridotti a emoticon o click si dimentica che l’io - direbbe Erving Goffman - è un teatro complesso, mutevole; e che non basta costringere al proprio nome e cognome reale chi giudica, per evitare commenti irresponsabili, capaci di ferire davvero. Banale, ma difficile da ricordare se la società della valutazione on line - quella in cui siamo immersi - non fa che intimarci di giudicare, commentare, recensire, continuamente. Tutto diventa “engagement”, media di giudizi di comuni utenti; e a primeggiare è chi aggrega più consensi, ottenendo il numero più alto nella metrica del “social” di riferimento. La scientificità è nulla? L’idea stessa ripugna? Poco importa, perché tutto è “connesso”, “condiviso”, “aperto”, “trasparente”. Deve esserlo. E noi siamo non solo i nostri dati, ma anche e insieme l’addizione dei giudizi che suscitano nei nostri “amici”.

È il mondo di Facebook, il nostro. Il mondo degli algoritmi che ci accoppiano già ai “migliori” - per noi, secondo le nostre convinzioni e preferenze; almeno, così come interpretate e catalogate dalla formula di Mark Zuckerberg per ottimizzare tempi e attenzione. Cosa manca dunque per realizzare il sogno di Peeple? Beh, forse ancora la voglia degli utenti di ammettere candidamente la sudditanza, di farsi carnefici consapevoli e dichiarati della complessità umana.

Ora per esempio Peeple, lanciata - secondo i termini di servizio solo ai maggiori di 21 anni “residenti in Canada” - a marzo dopo mesi di ritardi, ha dovuto fare diversi passi indietro rispetto alla sua utopia, al suo esperimento a cielo aperto di «recensire esseri umani», una sorta di “Yelp per le persone”. Non ci si può più finire iscritti da altri, come all’inizio; no, non basta ricevere un sms per notificare che qualcuno ci sta giudicando sulla app, e qualcun altro sta dunque leggendo un nostro profilo personale che noi lo si voglia o meno. Ancora: le “raccomandazioni”, cioè le recensioni di noi come individui, possono essere cancellate, se negative. Da maggio infine, a pagamento e tramite una “Licenza Verità”, gli utenti premium potranno pure accedere a uno storico integrale delle vostre valutazioni sugli altri - così sapranno se dite sempre male di tutti! - e dei giudizi che si volevano nascosti, non pubblicati. Se il vero, filosofeggia Cordray, è «la somma di tutte le raccomandazioni ricevute» questa forma di “condivisione” delle proprie vite somiglia però a un veicolo di controllo sociale reciproco, in cui ogni deviazione dall’imperativo di massimizzarla può tradursi in una penalizzazione nei propri concreti rapporti umani. Siamo in un “villaggio” dopotutto, giusto? Il problema è che nei villaggi, anche on line, a sedurre è molto spesso proprio il negativo che per Cordray si può risolvere semplicemente prevedendo che chi abusa sarà, in qualche modo, bloccato.

E se per se stessa l’ha capito bene - a suon di insulti e minacce di morte - per il suo servizio, magicamente, quella consapevolezza svanisce. Così la pagina Facebook della app è un continuo rimandare a poche stereotipate risposte agli iscritti («guarda all’inizio di questa pagina»; «dove?»; nessuna replica), e il sito ufficiale a condizioni di utilizzo che sembrano curarsi solo di proteggere Peeple da qualunque cosa possa andare storta. Qualche passaggio? Peeple non è obbligata a moderare i vostri contenuti; assume una licenza «perpetua, non esclusiva, senza royalty» di sfruttarli «per qualunque scopo e in ogni formato»; potrà disattivarvi l’account “«in qualunque momento e per ogni ragione, con o senza motivo, senza avviso». E le stesse condizioni d’uso possono mutare senza preavviso, sempre, e a unica discrezione di Peeple. Troppo poco contro gli abusi, ed è parte della spiegazione del rigetto generalizzato: i media hanno da lungo tempo preparato il pubblico al timore dell’odio in Rete, e oggi più di qualcuno riconosce il problema.

Ma ha ragione Cordray quando lamenta che quello stesso problema, appunto, esiste già, serpeggia tra le maglie dei social network che usiamo attualmente. Il giudizio del branco, la negatività in crowdsourcing, si esercita - come con lei - su Twitter, Facebook, WhatsApp: tutti i canali dell’espressione umana, come è naturale sia.
Perché prendersela proprio con Peeple? Viene allora da pensare che il suo vero peccato sia di ingenuità: avere preso sul serio la propaganda aziendale dei nuovi sovrani digitali. E avere ritenuto il mondo già arreso a ogni mantra comunicativo della Silicon Valley. Compreso quello di Cordray, per cui «un profilo su Peeple senza recensioni negative dimostra che siete i migliori in ciò che fate». Come se l’essere umano fosse niente altro che una somma di passaggi algoritmici, non una forma di vita senziente, imprevedibile, creativa nei diversi contesti sociali.

Nel mostrare troppo nitidamente il cuore di quella che è a tutti gli effetti un’ideologia - la stessa che guida Facebook, Google e i colossi dei dati e del codice del pianeta - Peeple ha detto troppo di un’intera modalità di concepire la socialità umana; dell’idea cioè che il sé si debba in qualche modo quantificare, ridurre a “mi piace” - ora con più “reazioni” emotive! - o stelline, pollici, numeri, come l’ultimo videogioco per PlayStation 4 o la serie tv del momento, su Imdb o Metacritic.

Molti ritengono che Peeple sia destinata a passare al dimenticatoio piuttosto in fretta, e che ciò che resterà del suo passaggio tra le meteore del social networking sia piuttosto il panico collettivo che ha generato. È più che probabile e, per molti versi, auspicabile. Ma sono proprio i Peeple della storia, a volte, a mostrarcene il senso più profondo, a dirci cosa si rischia davvero ad assecondare ogni avviso automatizzato di Facebook - «è la festa del papà, fagli gli auguri!»; «è primavera!» - ogni consiglio dell’algoritmo di selezione dei brani di Spotify o della propria intelligenza artificiale indossabile intenta a misurare passi, apporto calorico, battito cardiaco, attività sessuale: tutto. Il futuro della “personalità come destino”, il motto di Peeple, e della reputazione come valuta condivisa in Rete, più che entusiasmare ricorda gli scenari più foschi della fantapolitica, quelli in cui si immagina una normalizzazione strisciante, un conformismo dettato da nessuno e quindi da tutti, senza comandi ma pieno di seduzioni. «Perché dovrebbe essere morale», chiede un commentatore su Facebook, «ridurre gli esseri umani a giudizi numerici?”. «Il Numero Peeple è la somma delle raccomandazioni ricevute», la risposta.

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