Musica
La carica degli indipendenti: "Noi non ci Sanremo"
Incidono dischi. Fanno tournée. Riempiono club, teatri lirici, palazzi dello sport. Ma il Festival della canzone italiana li ignora. Ecco chi sono e come vivono i protagonisti della nuova scena musicale, tra rock, pop e canzone d'autore
Una band rock con strumenti elettrici per la prima volta al Teatro San Carlo, a Napoli, tempio della musica lirica. Dentro tutto esaurito, fuori in centinaia senza biglietto. Stessa scena qualche giorno dopo davanti a Castel Sant’Elmo. Nella città partenopea sono i Foja a raccogliere i maggiori consensi dal vivo, mentre Calcutta, 27enne cantautore cresciuto a Latina, dopo 110 concerti ha dovuto fare il bis a Roma per accontentare i fan della hit “Oroscopo”, già disco d’oro. E intanto la band pop italiana rivelazione dello scorso anno, i romani Thegiornalisti, dopo aver suonato in tutta Italia sono pronti a esibirsi, a maggio, nei palazzetti dello sport nella capitale e a Milano.
Da Catania a Torino le band rock, i gruppi pop, i rapper e i cantautori della nuova musica italiana riempiono club, centri sociali e palasport. Hanno nomi strani e autoironici - Lo Stato Sociale, I Cani, Brunori Sas, Pop X, Iosonouncane - e mescolano stili, sonorità e linguaggi molto diversi tra loro. Ma condividono un punto forte: sono usciti allo scoperto e riescono a infiltrarsi nei palinsesti delle radio commerciali, vendono dischi e t-shirt, fanno capolino in tv, milioni di visualizzazioni su YouTube e il pieno di streaming su Spotify. Senza essere stati lanciati da una major o da un talent show.
Eppure per il Festival di Sanremo (7-11 febbraio su Rai1) restano perfetti sconosciuti, invisibili, tanto che il padre della scena musicale “indie” italiana, Giordano Sangiorgi, patron dello storico Meeting degli indipendenti (meiweb.it) a Faenza, vicino a Ravenna, ha rivolto un appello al direttore artistico Carlo Conti. «Compia un atto di grande innovazione e inviti gli artisti indipendenti che stanno costruendo la nuova scena musicale italiana come ospiti al prossimo Sanremo, rompendo così quegli equilibri da manuale Cencelli. Il mio è un suggerimento, non una critica», ha detto.
Da vent’anni il Mei è palcoscenico per le band emergenti e osservatorio per la stampa specializzata: per la prossima edizione (29 settembre - 1 ottobre) sono attesi decine di giornalisti e 400 gruppi, che si alterneranno su trenta palchi per tre giorni no-stop, tra conferenze, live show, premiazioni. «La vitalità della nuova musica italiana segna la vittoria del modello produttivo indipendente che oggi si ritrova al Mei», continua Sangiorgi: «Se negli ultimi vent’anni ci fossero state solo le grandi case discografiche e i talent show, non avremmo mai conosciuto tanti artisti di valore che oggi hanno successo, investendo un centesimo dei soldi spesi negli spettacoli televisivi».
C’ERA UNA VOLTA L’INDIE
Universi distanti, fino all’altroieri inconciliabili: da un lato l’indie dall’altro il mainstream, la cultura di massa. Un tempo bastava che una band del circuito indipendente firmasse un contratto con una major per giocarsi per sempre la fiducia dei fan. Per accorgersi che l’aria è cambiata bisogna scavare un po’ e fare due chiacchiere con i protagonisti della nuova onda musicale tricolore. Motta, 30 anni, canta, suona chitarra, basso, batteria e tastiere, scrive testi. Cresciuto a Pisa, ora abita a Roma e macina un concerto dietro l’altro, al Mei 2016 lo hanno premiato come miglior artista emergente, ha incassato il Premio Tenco per la miglior opera prima con l’album “La fine dei vent’anni” (Sugar) prodotto dal cantautore Riccardo Sinigallia, uno dei più apprezzati discografici italiani. Un racconto tra pop e canzone d’autore sulla scoperta dell’età adulta, affresco ironico e disincantato sul rapporto tra le generazioni.
«Mio padre era un comunista / e adesso colleziona cose strane / dice che le amicizie e la rivolta sono vere / solo per chi ha paura e rimane», canta nel brano “Mio padre era un comunista”. «A me la parola indipendente non piace, non ne vedo l’utilità. E non credo che le grandi etichette condizionino le scelte degli artisti», dice Motta. «Negli ultimi anni molte cose sono cambiate. Ora, per fortuna, tanti ragazzi scrivono in italiano, c’è un bel lavoro sui testi. All’inizio, dieci anni fa, anche io scrivevo le mie canzoni in inglese, ma né io né il pubblico capivamo le parole. L’altra grande novità è la voglia di mettere da parte la vergogna e raccontare la propria fragilità».
I frammenti autobiografici si accavallano anche nei testi di un altro cantautore: Cosmo. Nome d’arte di Marco Jacopo Bianchi, 34 anni, che dopo aver lasciato la cattedra di italiano e storia in un istituto professionale della sua città, Ivrea, da quasi un anno gira la Penisola per promuovere l’album “L’ultima festa”, che è anche il titolo della canzone che ha totalizzato oltre un milione di streaming su Spotify. Sonorità elettroniche, lunghe fughe strumentali che riecheggiano le vibrazioni dei Subsonica, piemontesi come lui, tanta voglia di divertirsi e far ballare il pubblico ma anche un filo sottile di malinconia che attraversa brani come “Regata 70”.
«Nei cassetti in ogni stanza / nei carrelli della Standa / in una Fiat Regata bianca, perché / Era lì, proprio lì a metà degli anni ’80. / E non so dov’è che l’ho perduto. Era un sogno, un miracolo, un errore. / Un destino che non voglio rinnegare. / Eri tu, travestita da mia madre», canta Cosmo, che concluderà il tour di quasi 100 date con un concerto a Ivrea il 24 febbraio, in occasione del Carnevale. Per la copertina del disco ha scelto una foto in bianco e nero che ritrae sua madre Barbara a 16 anni, nel 1977, mentre il booklet del cd e l’interno del vinile contengono vecchie immagini di famiglia.
«Sono un vulcano con un sottofondo di malinconia. Per me il riferimento al passato non è uno spunto nostalgico ma un modo per guardarmi dentro», sottolinea il cantautore, che tra i suoi riferimenti musicali cita Brian Eno e il compositore americano Steve Reich, padre del minimalismo. Cosmo è distante anni luce dal Teatro Ariston: «A me non interessa andare a Sanremo, non serve nel mio percorso. Ma non perché sono indie, sporco e cattivo: secondo me è un evento musicale vecchio stampo, che andrebbe cambiato radicalmente».
CONFLITTO TRA GENERAZIONI
Vista con le lenti di ieri, la realtà di oggi risulta terribilmente sfocata. Certo, le etichette indipendenti esistono ancora e producono i nuovi cantautori. Quelle di vent’anni fa si chiamavano Consorzio Produttori Indipendenti, Materiali Sonori, Vox Pop, Mescal (quella di Afterhours, Subsonica, Carmen Consoli). Sono sopravvissute in poche, ma negli ultimi anni ne sono nate tante altre che adesso innovano la musica italiana: Bomba Dischi e 42 Records a Roma, Garrincha Dischi a Bologna, Woodworm ad Arezzo, Full Heads a Napoli. L’approccio della nuova generazione di cantautori, tuttavia, è profondamente diverso da quello degli anni Novanta. All’epoca andavano fieri della loro diversità rispetto alla musica pop trasmessa dalle radio commerciali, oggi Calcutta intitola il suo album “Mainstream” e ingarbuglia le carte.
«Quando il disco è uscito non pensavo di arrivare così lontano, il titolo l’ho scelto perché suonava bene, così come il mio nome Calcutta. Se l’avessi saputo prima il disco l’avrei chiamato, che so, “L’alba dei ciliegi”», scherza Edoardo D’Erme, che oggi abita a Bologna e spopola con canzoni come “Gaetano” («E ho fatto una svastica in centro a Bologna / Ma era solo per litigare / Non volevo far festa e mi serviva un pretesto») e “Frosinone” (Non ho lavato i piatti con lo Svelto e questa è la mia libertà / Ti chiedo scusa se non è lo stesso di tanti anni fa / Leggo il giornale e c’è Papa Francesco / E il Frosinone in Serie A»).
Un’ironia che piace ai fan, spiazza, ma non convince i detrattori, piuttosto numerosi. Ad esempio Manuel Agnelli, leader degli Afterhours e giudice del talent show XFactor, in una recente intervista al Fatto Quotidiano ha sparato a zero contro i nuovi cantautori. «L’emblema della debolezza di questa generazione è la sua incapacità di spazzarci via. Aspettavo da anni qualcuno che ci riuscisse: “Spazzateci via invece di criticarci - mi dicevo - spazzateci via con la forza che avete, cambiate le cose, non lasciateci spazio, soffocateci, cancellateci”».
Secca la replica di Calcutta: «Non voglio spazzare via Manuel Agnelli, semplicemente perché non lo conosco. Sono felice che faccia concerti a 50 anni, ma voglio percepirmi in un mondo abbastanza grande da poterci ignorare reciprocamente», dice il cantautore: «Non ho mai ascoltato gli Afterhours, non fanno parte del mio background. Quando andavo a scuola, Afterhours e Marlene Kuntz erano sinonimo di omologazione. Io ero diverso: ascoltavo musica internazionale, francese, africana».
FACTORY NAPOLETANA
Sul conflitto tra generazioni, le differenze tra passato e presente, dice la sua anche Dario Sansone, 35 anni, frontman dei Foja, alla vigilia del nuovo tour. «Ho sempre ascoltato storie di musicisti napoletani degli anni Ottanta che in apparenza si stimavano ma in realtà non si sopportavano. Oggi, appena avuto un po’ di bene, abbiamo provato a condividerlo con tutti. Quando facciamo un concerto ci sono almeno dieci ospiti», spiega Sansone, musicista ma anche disegnatore e regista di film d’animazione. I Foja hanno appena pubblicato l’album “O treno che va” con la canzone “Cagnasse tutto”, energica miscela di rock, folk e canzone d’autore napoletana, ospiti alcuni big che guardano con interesse alla scena musicale emergente: Ghigo Renzulli, Edoardo Bennato e Daniele Sepe. Il quartier generale del gruppo si trova a Palazzo Pandola, in piazza del Gesù Nuovo a Napoli, dove fu girato il film “Matrimonio all’italiana” di Vittorio De Sica.
In questo edificio settecentesco si trova una vera factory creativa: al primo piano la giovane casa discografica Full Heads, punto di riferimento per i nuovi musicisti partenopei, al secondo la Mad Entertainment, studio di animazioni digitali che ha prodotto il film “L’arte della felicità” di Alessandro Rak. Il regista ha realizzato anche il videoclip di “’O sciore e ’o viento” (un milione e mezzo di visualizzazioni su YouTube) dei Foja. «Sembra che l’indie oggi stia diventando il nuovo mainstream. Penso che Calcutta sia un cantore del suo tempo: lui, Thegiornalisti e The Zen Circus vanno ospiti in tv a “Quelli che il calcio”. Semplicemente perché oggi c’è un nuovo pubblico. Dieci anni fa ai nostri concerti venivano 100 persone, oggi seimila», prosegue Sansone.
LE VIE DEL CROWDFUNDING
Se oggi i talent show apparentemente sembrano l’unica via per raggiungere il successo e i discografici fanno a gara per reclutare i personaggi che si distinguono in tv, l’altra musica si fa strada in mille modi per conquistare quel nuovo pubblico. Egreen, nome d’arte di Nicholas Fantini, si è affidato alla piattaforma di crowdfunding Musicraiser. Nato a Bogotà 32 anni fa da padre italiano e madre colombiana, oggi il rapper abita a Busto Arsizio e gira l’Italia con i suoi concerti. Sul web ha raccolto dai seguaci quasi 70mila euro, cifra record per l’Italia, con cui ha prodotto il suo secondo disco ufficiale “Beats & Hate”, andato letteralmente a ruba.
Tra gli emergenti di grande talento c’è chi riscopre le origini come il cantautore napoletano Giovanni Block, che nel secondo album “S.P.O.T (senza perdere ’o tiempo)” abbraccia il vernacolo della sua città (Napoli) e fa pensare a Pino Daniele, come nella canzone “Adda venì Baffone”, e c’è chi resta invece nel solco del rock come la triestina Chiara Vidonis al debutto con “Tutto il resto non so dove”, undici brani tutti scritti da lei.
E chi infine, come il romano Lucio Leoni, nel suo primo album “Lorem Ipsum” unisce teatro e canzone popolare, rock, improvvisazione strumentale e rap metropolitano. Come nella canzone “A me mi”, una sorta di manifesto generazionale sempre in bilico tra commedia e tragedia. «La mia generazione è incompresa, la mia generazione è morta, la mia generazione è stanca, la mia generazione è finita / Perché, dati Istat alla mano, è compresa nella forchetta temporale che porta dal boom economico immaginario degli anni Ottanta fino alla crisi economica devastante e questa volta reale, degli anni Dieci». Lucio Leoni ci scherza su ma, almeno dal punto di vista musicale, la sua generazione è più viva che mai.