Nella fenomenologia politica del nuovo che avanza, apre il cuore il fatto che dopo decenni di lotte femministe siano finalmente arrivate al potere con i Cinque Stelle un bel po’ di donne, persino due sindache, una addirittura della Capitale.
Non si può avere tutto dalla vita, è noto, e dunque è solo un dettaglio insignificante che non si riesca a definire la leggiadra squadra grillina come una nazionale di femminismo dato che qua e là si registrano piccoli screzi.
Nulla di grave tranne che tutte si guardano ufficialmente in cagnesco, sono l’una contro l’altra e guai se l’una avanza prima dell’altra. Un modello perfetto di anti femminismo. A meno che non si tratti di un femminismo a rilascio lento. Oppure a scioglimento rapido.
Che dire del sostegno sororale mai venuto meno a Virginia Raggi? A dare il via alla riapertura delle “affettuosità” della season è stata giorni fa un’intervista (Corriere della Sera, Andrea Arzilli) dell’onorevole Roberta Lombardi, uno degli uomini più battaglieri del Movimento. A ridosso della richiesta di rinvio a giudizio della sindaca per falso ha detto chiaro e tondo che se condannata dovrà lasciare. Quel che si dice una vera amica.
Un anno fa la Lombardi aveva definito Raffaele Marra (allora prediletto da Raggi poi ripudiato) un virus e ora vieppiù rafforzata si presenta alle “regionarie” del 14 ottobre per la presidenza della Regione Lazio. In un generoso tentativo di distensione la sindaca di Roma ha pensato bene di cliccare su Facebook un «mi piace» a una rivale della Lombardi. È calato un silenzio che non promette nulla di buono, l’arena è pronta, speriamo niente sangue.
Che sia un femminismo da combattimento come da tradizione non c’è dubbio, peccato che i bersagli siano omeopatici. Tranne la sindaca di Torino Chiara Appendino che abbraccia tutti, ma è considerata troppo ecumenica, basta una nomina in quota rosa per provocare una sommossa com’è successo con le nuove assessore capitoline Margherita Gatta e Rosalba Castiglione. Tre attiviste grilline furibonde per le scelte «prive del profilo giusto» hanno annunciato il ricorso. Più o meno lo stesso pandemonio di Montecitorio alla riconferma a tesoriera del gruppo parlamentare di Laura Castelli, ex ortodossa filo Roberto Fico, ora fan di Luigi Di Maio, seguita da conciliaboli lagnosi e nemmeno un filo di supporto dalle colleghe in prima linea per un Nobel dei musi lunghi.
Il paradosso è che in un Movimento maschilista come quello dei 5S dove da parte della Casaleggio Associati molte candidature femminili sono state una scelta d’immagine basata più sullo sfruttamento del valore D che sul merito e dove lord Beppe Grillo ha definito i talk show il punto G delle grilline, i maschi di rango sono più silenti delle colleghe dello stesso status. Forse è un segno di un potere maschile più savio. O forse nell’epoca del femminicidio si fa largo un femminismo politico da clava ormai paritario e senza più il problema della solidarietà femminile. Versione buonista: le donne possono trattare uomini e donne allo stesso modo perché il lato debole non è più debole.
A occhio nudo non lo s’intravede, infatti, nella senatrice Paola Taverna, esponente stornellatrice di versi non alati dell’intellighenzia del movimento. Un tempo antagonista della Raggi in risposta alle lamentele dei romani sulla giunta ha twittato «Ma abitavate tutti in Svizzera prima?» Finalmente una lancia spezzata per Virginia. A riequilibrare ci pensa sua sorella Annalisa twittatrice seriale molto affettuosa con la sindaca che ha avvertito «t’appendo per quelle ’recchie».
Dopo anni di convincimento che «donna è molto meglio» il grillismo femminile mostra aspetti antropologici da casta maschile. La senatrice Barbara Lezzi è passata alle cronache per aver assunto come assistente la figlia del compagno. E oggi la donna più potente del Movimento è Silvia Virgulti non solo perché guida la comunicazione alla Camera ma anche per essere la fidanzata del leader Di Maio.
Alla luce dei fatti difficile immaginare in un ipotetico governo 5S un ministero per le Pari Opportunità.