Politica
dicembre, 2017

Banche, cosa sa Ghizzoni su Etruria e Boschi. E che cos'altro dovrebbe spiegare agli italiani

Il testimone chiave parla alla Commissione banche e conferma che Maria Elena Boschi chiese se Unicredit era in grado di acquisire l'istituto di Arezzo. Ma ci sarebbe molto altro da chiarire

È vero che tra novembre e dicembre del 2014 l’allora ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, chiese al capo di Unicredit, Federico Ghizzoni, di valutare l’acquisizione di Banca Etruria, da mesi sull’orlo del dissesto?

La risposta a questo interrogativo ha un peso politico inversamente proporzionale a quello sostanziale, perché l’intervento di Ghizzoni, semmai venne richiesto, alla fine non ci fu e la Popolare con sede ad Arezzo arrivò al capolinea nel novembre del 2015, con la risoluzione disposta dalla Banca d’Italia sulla base di un decreto del governo Renzi.

Adesso però l’audizione del banchiere, in programma per mercoledì 20 dicembre, viene brandita come un’arma letale dagli opposti schieramenti politici, gli stessi che in queste settimane hanno trasformato la commissione d’inchiesta in un ring, tra accuse, insulti e dossier incrociati.

Per le opposizioni, Cinque Stelle in testa, la conferma di quell’incontro diventerebbe la prova del conflitto d’interessi dell’esecutivo targato Pd, visto che il padre della Boschi era vicepresidente di Banca Etruria. Viceversa, l’eventuale smentita del banchiere sarebbe prontamente riciclata dai renziani come una medaglia al valore, la dimostrazione che il governo si mosse senza fare sconti a nessuno, neanche alla famiglia di un ministro in carica.

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In entrambi i casi, però, le parole di Ghizzoni su Etruria e dintorni non porteranno nessun contributo concreto a quello che doveva essere lo scopo principale della commissione presieduta da Pier Ferdinando Casini. E cioè individuare le cause, e le responsabilità politiche, della catena di dissesti bancari che tra il 2014 e il 2016, dal Monte dei Paschi di Siena alle Popolari venete, ha polverizzato i risparmi di centinaia di migliaia di famiglie.

Eppure, a ben guardare, con la sua testimonianza l’ex amministratore delegato di Unicredit potrebbe far luce su alcuni punti ben più sostanziali nelle vicende finanziarie ora sotto inchiesta in Parlamento. Ghizzoni, classe 1955, è stato uno dei manager più potenti d’Italia, almeno fino alla primavera del 2016, quando ha lasciato il posto di comando nel primo istituto di credito nazionale, l’unico considerato di rilevanza globale dalla vigilanza europea. Nel settembre 2010 il banchiere di origini piacentine aveva preso il posto in Unicredit di Alessandro Profumo, battendo la concorrenza di colleghi ben più accreditati, almeno sulla carta. L’anno scorso invece il ribaltone che defenestrò Ghizzoni venne innescato da un’operazione, mai del tutto chiarita, che parte proprio da Vicenza, o meglio dal primo e infruttuoso tentativo di salvare il salvabile dell’istituto poi finito in liquidazione.

L’audizione dell’ex capo di Unicredit sarebbe quindi un’ottima occasione per chiarire le manovre che andarono in scena nella primavera del 2016. Fu un gioco di specchi, tra contratti capestro e promesse mai mantenute, che finì per allungare l’agonia delle due Popolari, quella di Vicenza e Veneto Banca, con esiti disastrosi per clienti e investitori.

Non c’entra nulla, qui, il caso Boschi. La ricostruzione di quelle vicende dell’anno scorso sull’asse Milano-Vicenza-Treviso darebbe però un contributo importante per capire gli eventi che di lì a poco innescarono il disastro. Proprio questo, almeno in teoria, sarebbe stato il compito della commissione prima che si trasformasse, banalmente, nel più rumoroso tra i palcoscenici della campagna elettorale.

Conviene quindi fare un passo indietro nel tempo, fino a settembre del 2015, quando prende le mosse la complicata vicenda che ha per protagonista Ghizzoni. A quell’epoca la Popolare di Vicenza, reduce da un primo repulisti in bilancio e dal ribaltone manageriale che ha portato Giovanni Iorio sulla poltrona di amministratore delegato, deve trovare sul mercato 1,5 miliardi per tappare i buchi nei conti. Veneto Banca si trova nella stessa situazione, ma servono meno soldi: un miliardo. La soluzione, individuata con l’approvazione della Vigilanza della Bce di Francoforte, è quella dell’aumento di capitale accompagnato dallo sbarco in Borsa dei due istituti. Le risorse, 2,5 miliardi in tutto, verranno quindi raccolte sul mercato, con un’offerta di nuove azioni.

Questo, in breve, il piano. Per passare dalle parole ai fatti serviva però il sostegno degli investitori, poco propensi a comprare i titoli di due banche in gravissima difficoltà. E anche i piccoli soci, almeno 200 mila, erano quantomeno perplessi di fronte alla prospettiva di metter mano al portafoglio dopo che le loro azioni si erano già pesantemente svalutate nel corso dei due anni precedenti. Il rischio naufragio era quindi molto elevato. A salvare la situazione intervengono Banca Intesa, guidata allora come oggi dall’amministratore delegato, Carlo Messina e l’Unicredit di Ghizzoni.

I due istituti scendono in campo come garanti degli aumenti di capitale. In altre parole, secondo gli accordi sottoscritti in quelle settimane, le azioni rimaste invendute in sede di aumento di capitale, sarebbero state sottoscritte dai due colossi del credito nazionale: Unicredit si impegnava a sostegno di Popolare Vicenza, mentre Intesa era pronta ad aprire il suo paracadute per conto di Veneto Banca.

Si arriva così alla primavera del 2016, quando entrano nel vivo le manovre per dare il via ai due aumenti di capitale. Ed è a questo punto che crolla miseramente la doppia impalcatura di garanzia messa a punto nelle settimane precedenti. Per primo si sfila proprio Unicredit. Niente garanzia per l’aumento di Vicenza, che prende comunque il via a fine aprile. L’operazione cade nel vuoto. Nessuno vuole le azioni della banca veneta. Per evitare il disastro viene allestita in gran fretta una manovra di emergenza. Interviene il fondo Atlante, creato con il contributo di tutto il sistema creditizio nazionale, di alcune compagnie di assicurazioni e fondi pensione. Atlante diventa quindi l’azionista unico della Popolare (il 99 per cento del capitale), versando per intero il miliardo e mezzo che serviva a rimpinguare le casse dell’istituto. Lo stesso copione va in scena anche per Veneto Banca. In questo caso è Intesa a fare un passo indietro, sostituita dal neonato fondo di sistema.

Tirando le somme, quindi, si può dire che nella primavera del 2016 il rischio (2,5 miliardi di euro) del doppio aumento di capitale venne trasferito da Intesa e Unicredit ad Atlante, di cui peraltro le due grandi banche sono i quotisti più importanti. C’è dell’altro però. Giusto un anno dopo, a inizio aprile del 2017, si scopre che il buco nei conti delle Popolari è in realtà molto più grande di quanto fino ad allora immaginato. La Bce ordina una nuova iniezione di denaro fresco per 6,4 miliardi. Atlante, che nel frattempo aveva già versato un altro miliardo, si fa da parte e il governo sceglie la strada del salvataggio, finanziando con denaro pubblico l’intervento di Intesa, che nel giugno scorso ha rilevato la parte migliore dei due istituti in liquidazione. A conti fatti, l’esborso per le casse dello Stato potrebbe arrivare a 17 miliardi, con quasi 4,8 miliardi già versati alla banca acquirente.

Insomma, alla fine paga Pantalone: questo è sicuro. Ma resta ancora senza risposta una serie di interrogativi. La versione ufficiale della storia, quella raccontata dai comunicati stampa e nelle dichiarazioni dei protagonisti, lascia dietro di sé una scia di dubbi e di sospetti su cui la commissione parlamentare d’inchiesta sarebbe chiamata quantomeno a indagare. Se non altro perché il dissesto delle Popolari venete è stato pagato con risorse prelevate dalle tasche dei contribuenti italiani.

L’audizione di Ghizzoni, protagonista di un capitolo importante di questa vicenda senza lieto fine, potrebbe contribuire a diradare almeno un po’ la nebbia. Non è detto, ma può anche darsi che il banchiere sia pronto a togliersi qualche sassolino dalle scarpe. Per lui, infatti, il primo infruttuoso tentativo di salvare Vicenza si è trasformato in un boomerang che, alla fine, gli è costato la poltrona. Alcuni grandi azionisti gli hanno rinfacciato la paternità di un’operazione, la garanzia per l’aumento del capitale della Popolare di Zonin, che se fosse stata onorata avrebbe creato passività miliardarie nei bilanci di Unicredit.

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Ghizzoni si è difeso affermando che, in realtà, il contratto firmato a settembre 2015 non conteneva una vera e propria garanzia, ma era una sorta di pre-accordo, che sarebbe diventato vincolante solo se si fosse avverata una serie di quattordici condizioni. Tra queste anche la quotazione in Borsa di Popolare Vicenza, che poi non è avvenuta. Fatto sta che, in extremis, Unicredit ha potuto farsi da parte, evitando un pesante salasso finanziario. A quel punto però i grandi soci del gruppo creditizio, tra cui la fondazione di Verona e quella torinese Crt, fino ai grandi fondi americani, hanno raddoppiato le pressioni su Ghizzoni perché lasciasse l’incarico.

Messo alle strette, il manager ha preferito farsi da parte e a fine maggio dell’anno scorso ha rassegnato le dimissioni. A dicembre, a sorpresa, Unicredit lo ha designato come proprio rappresentante nel consiglio di Alitalia, ma è durata poco. Giusto qualche settimana, perché nell’aprile scorso la compagnia aerea è stata commissariata. Al vertice di Unicredit si è insediato il francese Jean Pierre Mustier, che per chiudere i conti con il passato e rafforzare il patrimonio a febbraio ha varato un aumento di capitale monstre da 13 miliardi. Il conto per gli azionisti, già pesantissimo, sarebbe stato ancora più salato se Unicredit avesse dovuto accollarsi anche i costi, almeno 3-4 miliardi, per evitare il fallimento di Popolare Vicenza. Un onere supplementare, quest’ultimo, che secondo alcuni analisti avrebbe anche potuto mettere a rischio la stabilità finanziaria dell’istituto.

A evitare guai peggiori è arrivato, come detto, il salvagente di Atlante, con cui il sistema bancario nel suo complesso si è fatto carico del doppio salvataggio. Negli ambienti finanziari sono in molti a sospettare che il governo, con il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, abbia avuto un ruolo decisivo nella creazione di Atlante, che oltre a far fronte alle necessità di capitale immediate delle due Popolari, ha permesso a Unicredit e a Intesa di sfilarsi senza danni dall’operazione. Questa versione dei fatti è però sempre stata smentita dai diretti interessati.

Adesso Ghizzoni, nell’audizione in commissione, potrebbe dire la sua sull’argomento. Anche perché, alla luce di quanto è accaduto nei mesi successivi, fino al salvataggio di Stato delle banche venete, si può dire che l’intervento di Atlante sia stato tutt’altro che risolutivo.

Quella prima iniezione di capitale nei bilanci disastrati delle Popolari venete, 2,5 miliardi, si è infatti rivelata insufficiente. Il buco nei conti era molto più profondo. Sono bastati pochi mesi di verifiche, da parte del nuovo azionista Atlante, per scoprire ulteriori falle nel corso del 2016. E ancora più severo è stato il verdetto della Bce, emesso all’inizio del 2017.

Possibile che nessuno si fosse accorto di nulla già nel 2015, quando Popolare Vicenza e Veneto Banca sono state sottoposte dalla Vigilanza europea a nuovi serrati controlli? Si è così scoperto che i prospetti informativi, quelli per gli aumenti di capitale delle due banche venete varati nella primavera 2016, erano stati redatti, e approvati, dalla Consob, sulla base di bilanci che di lì a poco si sono rivelati del tutto inattendibili. Nel gran falò di miliardi che ne è seguito, Intesa e Unicredit sono riuscite a limitare i danni rispetto all’ipotesi iniziale, che le vedeva intervenire direttamente nei salvataggi. I due colossi del credito hanno perso solo il denaro investito in Atlante e cioè circa 650 milioni ciascuno.

D’altra parte, nel corso del 2016, il crescendo di notizie negative, a cominciare da quelle giudiziarie, ha convinto migliaia di clienti delle due Popolari a spostare altrove i loro depositi, aggravando, fino a renderla insostenibile, la crisi di liquidità degli istituti. L’esodo dei correntisti ha finito per avvantaggiare soprattutto Unicredit e Intesa, che hanno così potuto rafforzare la loro posizione nel Nordest.

Tempo pochi mesi e nel giugno scorso Intesa ha completato l’opera, rilevando al prezzo simbolico di un euro, e con il contributo miliardario dello Stato, i 26 miliardi di depositi dei due istituti veneti finiti in liquidazione. La banca acquirente è stata selezionata dal ministero del Tesoro, che, secondo le dichiarazioni ufficiali, avrebbe ricevuto anche altre offerte. Per valutarle, il governo si è affidato alla Rothschild, griffe della finanza tradizionalmente molto attiva in Italia. La stessa Rothschild che giusto un mese prima dell’incarico governativo aveva ingaggiato un nuovo senior advisor. Chi? Proprio lui, Ghizzoni. Che a fine luglio è stato promosso presidente della banca d’affari.

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