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Cultura
dicembre, 2017

Antonio Albanese: «Non so se voterò. La situazione è drammaticissima»

L'attore, nei cinema con "Come un gatto in tangenziale" parla a tutto campo. Dal difficile momento attuale (politico e sociale) al disorientamento politico di molti a sinistra

Il suo ultimo film da protagonista, “Come un gatto in tangenziale” con la regia di Riccardo Milani, parla di bolle. Quella del protagonista, consulente di un think-tank per i fondi europei alle periferie, che è una bolla paternalista, luogocomunista e citazionista, con PPP, Pier Paolo Pasolini, evocato al minuto tre del montaggio. E la bolla fisica del quartiere Bastogi in zona Boccea, uno dei tanti nomi della catastrofe urbanistica di Roma, dove la società liquida e la libera circolazione sono state sostituite da una scritta sul muro d’ingresso: «lassate ogni speranza o voi k’entrate».

La premessa dantesca richiede un Virgilio che nel film è Paola Cortellesi, degna di Anna Magnani in “Campo de’ fiori”. Lei è una madre con il marito “ar gabbio”. Lavora a chiamata in una mensa per anziani e cerca di tenere il figlio tredicenne lontano dalla droga e dalla fidanzata pariolina, figlia del redentore di periferie. «Ho cercato di raccontare quest’uomo», dice Albanese, «che si è eletto a educatore, che sproloquia delle 112 etnie presenti a Roma e che muove soldi per aiutare persone delle quali non sa nulla».

“Come un gatto in tangenziale” è un film natalizio che non doveva essere tale («io non lo sapevo quando usciva, ha deciso la produzione»), con un protagonista borghese interpretato da un attore di origine popolare e proletaria, figlio di un muratore siciliano emigrato a Olginate, vicino a Lecco, negli anni Cinquanta del secolo scorso quando «molto serenamente non si affittava ai meridionali». In questa storia di integrazioni che si ripete, Albanese lavora sempre più su temi politici. Succederà con la miniserie “I topi”, sei puntate per Rai3 a partire da gennaio su una famiglia che vive nel sottosuolo. Sarà così anche con “Contromano”, il film in uscita a fine marzo su un’emigrazione al contrario verso l’Africa.
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Sullo sfondo aleggia l’ombra del Male Politico in persona, il Leader del Partito del Pilu Cetto Laqualunque. «Tornerà prima o poi. Ogni tanto mi appare, latitante all’estero, forse in Amazzonia con i capelli tagliati a scodella come gli indios».

Fra un appuntamento artistico e l’altro bisognerà votare. Riuscirà a votare Antonio Albanese? «Non so. La situazione è drammaticissima. Sto cercando di capire. Sono in ascolto ma ho la labirintite. Stiamo ancora discutendo della legge sullo ius soli che dovrebbe essere già stata approvata. Trovo umiliante per me stare qui a parlarne con il centrosinistra al governo, eppure non mi meraviglio. Negli ultimi venti, trent’anni, la sinistra ha praticato soltanto lo snobismo e la ghettizzazione di se stessa e degli altri. Non ha frequentato la quotidianità delle persone e si è messa su un trespolo a teorizzare. Da ragazzo ho visto nascere la Lega lombarda nelle mie zone dove la ricchezza aumentava in parallelo con l’abbandono da parte della politica. Il fenomeno leghista è stato giudicato in base a un’analisi ex cathedra. Nessuno che venisse a conoscere, a verificare sul posto. Adesso succede la stessa cosa con l’estrema destra. Io me ne sono accorto anni fa che stava partendo questa rabbia malata e non perché sono più intelligente degli altri ma perché sono un comico. Sto sul territorio. Beppe Grillo è un comico. Dicono tutti che vive chiuso nella sua villa a Genova ma ha seguito il paese in lungo e in largo. L’ultimo Nobel per la letteratura in Italia l’ha vinto un comico che abbracciava la gente come Dario Fo».

L’abbraccio per Albanese è fondamentale. È la parola che ricorre di più nel suo discorso, emotivo e razionale. Lui che è cresciuto in un paesino lombardo di tremila persone si definisce un romano-non romano «afflitto dallo stato di abbandono in cui si trova la capitale d’Italia anche in pieno centro».

Per l’attore l’esperienza di lavorare in periferia è stata un’occasione di contatto con i quartieri dell’Urbe narrati da PPP e cantati da Renato Zero, presente nella colonna sonora. Il palcoscenico principale del film, il residence Bastogi, non è al debutto. È già stato rappresentato come la piccola Scampia di Roma da una docufiction Rai del 2003. Le palazzine, costruite nei primi anni Ottanta per accogliere i dipendenti Alitalia, sono rimaste inutilizzate finché il Comune ha rilevato l’area. Nel corso degli anni sono state occupate da duemila “cittadini con disagio abitativo”. La metà non sono censiti. Le case Bastogi di solito finiscono in cronaca per la cocaina calata con i panieri dai balconi, per la ventinovenne organizzatrice dei pusher che ottiene i domiciliari perché incinta del quinto figlio, come Sofia Loren in “Ieri oggi e domani”, per le sentinelle all’ingresso del rione, per la popolazione che aggredisce i poliziotti, per le manifestazioni di protesta in cima al Colosseo, per il racket degli alloggi e per gli inquilini regolari prelevati dagli appartamenti e allocati dentro il cassonetto più vicino. Ogni tanto arriva la politica per una breve visita. Era già così nel 1984 quando il sindaco Ugo Vetere, del Pci, tentava di usare le case per gli sfrattati. Un anno fa si è presentata l’assessora grillina all’ambiente Paola Muraro che, qualche settimana prima di dimettersi, si è fatta filmare mentre ordinava interventi straordinari di pulizia all’Ama. Due mesi fa, il 23 ottobre, il sindaco Virginia Raggi ha perfino inaugurato un campo da calcetto.

«La nostra esperienza con il quartiere», racconta Albanese, «è stata di grande calore e partecipazione. Dopo una fase di studio la gente ci ha abbracciato perché il cinema porta vitalità e fermento. C’è stata una disponibilità totale durante le riprese. Molti hanno lavorato con noi e organizzeremo una proiezione speciale del film a Bastogi». Vengono dal quartiere le gemelle Giudicessa, per la prima volta sugli schermi con il più bel ruolo secondario del film. Interpretano Pamela e Sue Ellen, fan del programma tv “Storie Vere” di Franca Leosini. Sono due taccheggiatrici professionali ma in nome del politicamente corretto si definiscono vittime di “shopping compulsivo”. Nelle scene girate sul mare a Fiumicino i generici sono abitanti di Bastogi portati fino al litorale di Coccia de Morto, nominata da Legambiente peggiore spiaggia d’Italia 2016 con una concentrazione di 5500 rifiuti in cento metri quadrati, tra la foce del Tevere e le piste dell’aeroporto Leonardo da Vinci. La controgita organizzata dal personaggio di Albanese si svolge a Capalbio dove Franca Leosini è presente in carne e ossa e si parla della Biennale di Venezia che fu luogo mitico per le imprese di Alberto Sordi e della moglie buzzicona nelle “Vacanze intelligenti”. Gli intellettuali della piccola Atene hanno perso mordente. Sono vecchi, vagamente depressi e tollerano con coscienza democratica gli handicap dell’aliena venuta da Bastogi, incapace di camminare scalza sulle assi di legno del bar in riva al mare. Nella bolla opposta, in periferia, l’intellighenzia al massimo può suscitare un senso di superiorità, oggi come ieri. Il bersaglio dell’odio è lo straniero e il nemico per eccellenza è il governante. «La diffidenza verso la politica, che io considero un’arte nobile, è enorme nel quartiere. C’è un senso di isolamento a cominciare dal trasporto pubblico che non va. I sindaci delle municipalità locali, in una città enorme, hanno troppo poco potere e pochi mezzi finanziari. A Bastogi, politico significa in automatico ladro».

Il film cerca di giocare su questo odio ed è ironico che fra i quattro sceneggiatori ci sia Giulia Calenda, della dinastia cinematografica dei Comencini (mamma Cristina e nonno Luigi), sorella di Carlo, frequentatore della costa capalbiese e ministro dello Sviluppo economico. Ma l’unico sviluppo economico legale in quartieri come Bastogi sembra legato alle serie televisive. Su questo argomento, Albanese esce per qualche istante dalla bolla di magnesio che lo protegge.

«Ho amato moltissimo “Gomorra”. Ho letto passi scelti del romanzo con Roberto Saviano alla Triennale di Milano. Ho adorato il film di Matteo Garrone. È stata una sana ribellione ma adesso mi sono rotto i coglioni di vedere coltelli e pistole. A forza di cavalcare il fenomeno siamo arrivati all’esasperazione. È diventata una parodia come il fanatismo verso i cuochi che ho preso in giro con il personaggio dello chef Alain Tonné. Capisco che oggi ci sono ottomila canali, che bisogna riempire i palinsesti e che non siamo più ai tempi in cui televisione significava anche Paolo Grassi, Paolo Poli, il Ligabue di Flavio Bucci, ma serve coraggio perché in questo paese la cultura si è ghettizzata, si è chiusa nella sua periferia. L’ultimo che ha fatto qualcosa è stato quell’assessore, come si chiamava?».

Renato Nicolini, si chiamava, e il suo programma culturale era trascinare le periferie verso il centro di Roma. Certo, è passata una vita e il discorso di Albanese può suonare nostalgico. Con cinquantatré anni all’anagrafe e oltre trenta fra teatro, tv, cinema, un po’ di passatismo è inevitabile. Albanese rievoca la sua gioventù musicale fra De Gregori, Bennato, i Pink Floyd e i Genesis, quando il figlio del muratore siciliano spedito in fabbrica dal padre a 15 anni («non ci su’ piccioli, s’avi a travagghiari»), doveva fare salti mortali per infilarsi a un concerto.

«Però io vedevo concerti. Oggi i ragazzi vanno a vedere gente tatuata. È un culto dell’immagine che non porta a niente. Se dall’arte sparisce la meritocrazia, l’arte è finita. Adesso voglio farlo io un esempio snob. A me piace l’arte contemporanea. Qualche anno fa, vado alla Biennale diretta da Rem Koolhaas e scopro che Koolhaas fa una cosa meravigliosa. Organizza uno stand di maniglie, uno di porte, uno di cessi. Voleva dire: ripartiamo da zero, c’è troppa confusione. Io rispetto i tatuaggi, ho un amico tatuatore. Ma devono avere un senso. Il mio tatuaggio ce l’ho qua sul polso. È la cicatrice di una scheggia che mi ha colpito nella fabbrica metalmeccanica dove ho iniziato a Olginate, prima di iscrivermi alla scuola di arte drammatica. Quando è stato il mio turno di insegnare, insieme ai classici ho montato un esercizio su uno sciopero in fabbrica. Un’allieva è venuta da me a chiedermi: scusa, come si vestono gli operai? Non ne aveva mai visto uno». Albanese ha una figlia di ventiquattro anni. Lei, gli operai ce li aveva in famiglia. Quando si è iscritta al classico, suo padre voleva dare una festa. Anche il classico, dice l’attore, dovrebbe essere obbligatorio perché i classici sono obbligatori.

«Invece siamo nell’era di Amazon e della strana democrazia del web. Io credo che gli sketch di Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi oggi sarebbero lapidati via web. In quanto ad Amazon, mi sembra che abbia un progetto preciso: abbassare i prezzi, annientare il tessuto commerciale e aumentare i prezzi quando tutto sarà dentro enormi magazzini, ovviamente di Amazon. Il mitico denaro si mangia tutto quando lavorare con onestà e dignità a costo di qualche rinuncia è bellissimo. Invece hanno messo i film a due euro il mercoledì, una cosa devastante. Come industria il nostro indotto è di centomila lavoratori. Capisco aiutare gli studenti. Aiutiamoli sette giorni a settimana con prezzi speciali. Ma il biglietto a due euro significa umiliare il cinema».  

Tornano esempi più virtuosi in Europa, come quello della Francia, «dove c’è rispetto per la cultura» o come quello della Germania dove c’è quasi troppo rispetto per la cultura. «Racconto l’ultima. Andiamo a Berlino a presentare “Qualunquemente”. Un cinema strapieno. Mi dicono che sono quasi tutti tedeschi. Io sono molto emozionato e mi metto in un angolo ad ascoltare le reazioni. Un attore lo sa quali sono i punti forti di uno spettacolo, le battute più divertenti. Nulla. Un silenzio assordante. Penso: è andata male. Invece a fine proiezione scoppia un applauso pazzesco. Segue dibattito. Si alza uno spettatore che, in un italiano con forte accento germanico, mi dice: non ho mai visto niente di più drammatico». Questo accade a Berlino, locomotiva dell’Europa unita. Nelle nostre bolle italiane, da Bastogi a Capalbio, da Olginate alla Calabria di Cetto, l’unica è ridere. E prendere il magnesio.

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