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Mondo
dicembre, 2017

Viaggio alla fine del mondo

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Cresce ovunque la paura dell’Apocalisse. Che esorcizziamo con fiction e romanzi. Ma un rischio reale esiste. Quello della catastrofe ecologica

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Mettiamoci comodi: c’è la Fine del mondo. E non abbiamo che l’imbarazzo della scelta. Possiamo consultare i cataloghi degli editori cercando le ultime novità del genere “climate fiction”. Azionare il telecomando scegliendo le ultime offerte distopiche tra cinema e serie tv. O rileggere la trilogia dell’“Adamo pazzo” di Margaret Atwood e rivedere “Waterworld”, “The day after tomorrow” e “Kingsman, the secret service”, con quel tipo che ha trovato la soluzione perfetta per interrompere il riscaldamento globale e la catastrofe ecologica: sterminare la gran parte dell’umanità.

Oppure potremmo metterci un po’ meno comodi e provare a pensare la Fine, invece di goderne lo spettacolo sublimando quella paura incerta, quel «panico perplesso che sembra aleggiare sullo spirito del tempo, rivitalizzando all’improvviso il famoso “no future” del movimento punk», come hanno scritto Déborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro in un saggio sulle paure della Fine. 
In fondo anche così non c’è che l’imbarazzo della scelta. Si tratta solo di cambiare punto di vista. Provare, per esempio, ad adottare quello di chi con la Fine del mondo, del suo pezzettino di mondo almeno, ci fa i conti nella quotidianità non-fiction. 

Saúl Luciano Lliuya, un contadino delle Ande peruviane, non ha certamente letto lo studio pubblicato qualche mese fa dal Journal of biophysical research sull’innalzamento dello zero termico in tutta l’area andina e le sue devastanti conseguenze. Non è stato necessario per giungere alle stesse conclusioni: la sua terra ha sete, il ciclo stagionale che significa sussistenza è stravolto. Il suo micromondo sta finendo. Ed è una fine che forse Saúl avrebbe osservato con rassegnazione se non avesse incontrato Noah Walker, un antropologo che viaggiava tra i villaggi contadini del Perù. È grazie a quell’incontro se Saúl, il 13 novembre del 2017, si è presentato al Tribunale di Hamm, in Germania, per sostenere la sua causa contro una compagnia elettrica tedesca che emette gas contaminanti contribuendo - sostiene il contadino - alle devastazioni che il cambiamento climatico sta provocando nella sua valle. La corte di Hamm, secondo quanto ha riportato Il quotidiano El País, «ha preso in considerazione la richiesta di compensazione del signor Lliuya, stabilendo un precedente molto importante».

A molte migliaia di chilometri dalla valle andina, un altro micromondo sta finendo. È quello dei pastori Peul della regione centromeridionale della Mauritania, studiati qualche anno fa da un antropologo dell’Università di Teramo, Riccardo Ciavolella. Anche qui si chiama cambiamento climatico la probabile fine del micromondo dei Peul. Ma il capo di una comunità di quei pastori è apparso molto più fatalista del contadino peruviano. Quando ha visto installare un pluviometro al centro del suo villaggio (come riferisce nel suo studio l’antropologo italiano) lo ha guardato con un sorriso: «Non capisco a cosa serva, certamente non farà piovere domani».

Spostiamoci ancora di migliaia di chilometri verso nord-ovest, fino a Rigolet, nel Labrador, Canada. Dove il «ghiaccio perso significa perdita della speranza», come ha titolato il 27 novembre del 2017 il New York Times raccontando la storia di Derrick Pottle. Derrick è un inuit di Rigolet che la fine del suo mondo ha cominciato a vederla il giorno in cui ha dovuto fare retromarcia con la motoslitta. Non poteva proseguire: l’autostrada di ghiaccio che aveva sempre percorso per raggiungere il suo capanno di caccia invernale, al di là della baia, non c’era più. Al suo posto mare scuro. 

Scuro come il futuro, che gran parte degli Inuit non vedono più. Lo ha certificato uno studio pubblicato nel 2016 dall’American Journal of public health: il tasso di suicidi tra la popolazione del Nunatsiavut (l’area autonoma degli inuit sulla costa nord-occidentale del Labrador) è aumentato di 20 volte negli ultimi anni.
Tornando nel macromondo dove la Fine è ancora fiction, potremmo chiederci a chi siamo più affini. Se siamo consapevoli e combattivi come il contadino peruviano, disperati come i cacciatori inuit, o fatalisti e inconsapevoli come il capo comunità dei pastori Peul.

A giudicare dai risultati di un sondaggio lanciato via web dall’Onu nel 2015 sugli argomenti più importanti per il futuro proprio e della propria famiglia, non ci sarebbero dubbi: siamo come i pastori della Mauritania. Il 15 novembre del 2017 le risposte da tutto il mondo su myworld.org erano arrivate a quasi 10 milioni. All’ultimo posto dei 16 temi proposti - nonostante fosse stato collocato al primo posto della lista - si sono classificate le “misure prese sui cambiamenti climatici”. E secondo un’indagine realizzata da Ipsos tra il 5 e l’8 dicembre, per gli italiani il cambiamento climatico non compare proprio tra le 6 notizie più preoccupanti del 2017. Persino le fake news ci fanno agitare di più.

Sarà che il “panico perplesso” lo abbiamo davvero sublimato sottoponendoci a massicce dosi di fiction e ci sentiamo al sicuro? O che ci fidiamo di chi decide le sorti del mondo? In fondo, con l’eccezione del negazionista Trump - che nemmeno le conferme sul “climate change” contenute in un recente rapporto delle “sue” agenzie governative fa recedere dal “progresso a carbone” - è da un quarto di secolo ormai che il problema è in cima all’agenda dei leader mondiali.
Dal summit sulla Terra (1992), meglio noto come conferenza di Rio, all’accordo di Parigi (2015), passando per il protocollo di Kyoto (1997), gli impegni sottoscritti per salvare il pianeta dalla catastrofe ecologica potrebbero riempire una biblioteca. 

Ma i conti non tornano, se i due principali leader europei hanno alzato il livello di allarme con toni difficilmente sentiti prima. «Vogliamo proteggere il mondo, siamo dinnanzi a una delle maggiori, se non alla maggiore sfida per il genere umano. I cambiamenti climatici sono la questione cruciale per il destino dell’umanità», ha detto Angela Merkel alla conferenza mondiale sul clima di Bonn il 15 novembre. Un mese dopo Emmanuel Macron ha rincarato: «Stiamo perdendo la guerra del clima». E il 19 dicembre le autorità cinesi hanno annunciato che stanno progettando l’apertura del più grande mercato mondiale di “pollution credits” (il cui funzionamento, in sintesi, è questo: se inquino pago a qualcuno che userà i soldi per abbattere l’inquinamento). Un grande passo dal Paese numero uno al mondo per emissione di gas serra. Basterà?

I conti ancora non tornano perché le emissioni di Co2 nel 2017 sono aumentate per la prima volta dopo tre anni di stagnazione stabilendo un nuovo record storico. Perché dopo decenni sono peggiorati i dati sulla fame nel mondo anche e soprattutto a causa del cambiamento climatico. Perché i segnali che il grande mutamento è qui e ora, e non in un futuro indefinito, si moltiplicano. E anche quando non sono “spettacolari” come un iceberg delle dimensioni della Liguria che si stacca dalla banchisa antartica (luglio 2017) o gli uragani sempre più potenti e frequenti, non per questo sono meno preoccupanti. O almeno così la pensano gli scienziati della University of Sussex, che hanno misurato la catastrofe ecologica dal rapido declino della popolazione di insetti. «È in corso un armageddon ecologico», ha concluso il professor Dave Goulson, coautore dello studio, «perché se perdiamo gli insetti significa che tutto sta collassando». 

E deve aver pesato, nelle dichiarazioni di Merkel e Macron, la voce del mondo scientifico internazionale che si è fatta sentire forte il 13 novembre, proprio alla vigilia della conferenza di Bonn. Era il 1992 quando i premi Nobel riuniti nella ong “Union of concerned scientists”, insieme a 1700 firmatari, misero in guardia sul fatto che l’impatto delle attività umane sull’ambiente avrebbe probabilmente provocato «grandi sofferenze» e «danneggiato il pianeta in modo irrimediabile». E il 13 novembre scorso, appunto, in una dichiarazione pubblicata sulla rivista scientifica Bioscience e sul quotidiano Le Monde, oltre 15 mila scienziati di 184 paesi hanno tastato il polso alla Terra 25 anni dopo quel primo appello. Con questa conclusione: «Presto sarà troppo tardi per salvare il pianeta».
Presto, non ancora. Purché non si perda altro tempo, come avevano ammonito un paio di anni fa anche gli scienziati dell’università di Oxford stilando un elenco dei 12 pericoli che minacciano la nostra estinzione come genere umano. Inutile dire che al primo posto c’era la catastrofe ecologica, il “climate change”.

La paura della Fine ha una storia millenaria, affonda nel mito, nelle religioni. Ma per la prima volta, come osservò Claude Lévy Strauss, la scienza che si è separata dal mito tremila anni fa, finirà per reincontrarlo.
La scienza, come si è visto con l’appello su Le Monde, non si risparmia sul tema della Fine del mondo, del mondo umano. Almeno dagli anni Ottanta del secolo scorso, quando il biologo Eugene Stoemer e il premio Nobel per la chimica Paul Crutzen coniarono il termine Antropocene per designare una nuova era geologica iniziata con la rivoluzione industriale, consolidatasi nel Dopoguerra, e caratterizzata da modifiche strutturali e climatiche del pianeta Terra attribuibili alla specie Homo sapiens.

Al contrario: in un paradossale rovesciamento dei ruoli e dei linguaggi con i professionisti della comunicazione (categoria nella quale si possono includere anche i politici, con la parziale eccezione delle ultime svolte linguistiche di Merkel e Macron) sono proprio gli scienziati ad adottare i toni più allarmistici. Nel nostro Paese lo ha notato, tra gli altri, il climatologo Stefano Caserini, in un recente articolo su Micromega in cui sottolineava che nel complesso il mondo culturale e mediatico italiano sta ignorando «più o meno consapevolmente» questo problema.
Siamo in preda a una “Grande cecità”, per dirla con il titolo del recente libro di Amitav Gosh (pubblicato in Italia da Neri Pozza), che a parte qualche caso riguarda il mondo intero. Perché la letteratura fa così fatica ad affrontare il tema del cambiamento climatico - si chiede il grande scrittore indiano in un j’accuse verso i suoi colleghi - e perché la sola menzione dell’argomento basta a relegare un racconto o un romanzo nel campo della fantascienza?

Gli scienziati, dicevamo, non si risparmiano. Era il 2004 quando l’astrofisico Martin Rees non esitò a intitolare un suo libro “Il secolo finale” (Mondadori) sostenendo che la probabilità che il genere umano distrugga se stesso e il mondo che lo circonda entro i prossimi 100 anni è di circa il 50 per cento. Era il 2009 quando la rivista Nature pubblicò un numero speciale in cui un gruppo di scienziati identificavano nove processi biofisici (dal cambiamento climatico al consumo d’acqua dolce) che stiamo “forzando” fino al limite col rischio di generare cambiamenti ambientali incompatibili con la vita di molte specie, tra cui la nostra. 
E il biologo Edward Wilson comincia con queste parole il suo ultimo lavoro (“Metà della terra, salvare il futuro della vita”, Codice edizioni): «Per la prima volta nella storia tra coloro che riescono a prevedere ciò che avverrà tra più di un decennio si è sviluppata la convinzione che stiamo giocando un finale di partita globale. [...]. La popolazione umana è troppo numerosa per sopravvivere al sicuro e in condizioni di benessere. L’acqua potabile è sempre più scarsa e l’atmosfera e i mari sono sempre più inquinati. [ ... ] Il clima si sta modificando in modi non propizi alla vita, tranne che per i microbi, le meduse e i funghi». 
Più che fine del mondo, sarebbe insomma un “mondo senza di noi”, come il titolo del bestseller di Alan Weismann tradotto in 34 lingue (uscito in Italia da Einaudi nel 2008), da cui sono stati tratti documentari e recentemente anche un videogioco della Sony.
Ma c’è chi non gioca affatto con l’idea di un pianeta Terra liberato dagli umani per loro stessa mano. Anzi, lo auspica. Come i sostenitori del Movimento per l’estinzione volontaria degli umani, fondato in America negli anni Novanta e guidato dall’attività Les U. Knight. No, gli aderenti al “Vhmet” non predicano lo sterminio come in una distopia cinematografica «e non sono necessariamente a favore dell’estinzione totale umana», rassicurano sul loro sito. Ma concordano sul fatto che «nessuno dovrebbe essere messo al mondo in questo momento». Perché solo eliminando nei prossimi decenni l’impronta ecologica di qualche miliardo di persone - sostengono - la Terra si salverà. 

All’altro estremo del pensiero della fine come “mondo senza umani” c’è l’idea transumanista di un “umani senza mondo”. O meglio di un “noi” frutto si una discontinuità antropologica (la “singolarità” di cui parlano pensatori come Ray Kurzweil e Vernon Vinge) in cui saremo liberati dalle nostre “catene” biologiche grazie alla tecnologia, che ci renderà oltre-umani, potenzialmente eterni, e meno bisognosi di mondo. Data prevista: 2045. 

Tornando sulla Terra, la terra dei pastori Peul, degli Inuit, del contadino andino e di tutti noi terreni, si tratta forse di pensare la Fine uscendo dalla paura o dal suo addomesticamento fiction. Pensarla senza negarne la possibilità come un qualsiasi Trump. Ma con il pessimismo che rivendicava il filosofo Günther Anders di fronte al l’incubo nucleare durante la Guerra fredda: sperando di avere torto e conducendo la propria battaglia intellettuale proprio con lo scopo di averlo.  È a questa rivoluzione del pensiero che ci invitano antropologi e filosofi come Bruno Latour, Isabelle Stengers e molti altri, tra i quali un ruolo di primo piano spetta a Jorge Mario Bergoglio, Papa Francesco, la cui enciclica del 2015 “Laudato si’” è stata considerata anche in ambito scientifico un’opera fondamentale. 

Ma il pensiero della Fine, come decisiva arma dell’intelletto per un nuovo impegno culturale e politico che significa inizio, è un sentiero ripido, impervio. Lo sottolinea lo stesso Papa, giudicando il mutamento nella condotta dell’umanità non solo «necessario», ma «radicale e urgente». La «conversione ecologica globale» di cui parla Bergoglio, richiede una messa in discussione totale della way of life occidentale (in termini di consumo energetico pro capite) che una metà del mondo pratica e l’altra metà sogna o progetta in una corsa che si chiama “crescita”. Parola che - nell’Antropocene - dovrà ormai rassegnarsi al divorzio da un’altra parola chiave della modernità: progresso. Così suggeriscono la grande maggioranza degli scienziati e gli studi di carattere storico, antropologico, filosofico, più attenti a ristabilire un’unità di sapere nel nome di Gaia.

Oltre a crescita e progresso, entrano in gioco idee come natura-cultura, modernità, globalizzazione, capitalismo... Storia e politica, in una partita culturale globale che si gioca su un crinale franoso.
Se per il filosofo Peter Sloterdjik «non è più la politica pura e semplice, ma la politica climatica a essere il destino», lo storico indiano dell’Università di Chicago Dipesh Chakrabarty ha indicato nel climate change lo snodo fondamentale della storia. Intesa anche come disciplina. Una disciplina che insieme alle altre deve ripensarsi profondamente a cominciare dal concetto di modernità, spazzando via la distinzione tra storia naturale e storia umana. 

Siamo “Fuori controllo” ammonisce il titolo di un recente saggio dell’antropologo norvegese Thomas Hylland Eriksen (Einaudi). E non sarà facile riprenderlo, il controllo. Perché il capitalismo globale e le politiche che lo inseguono sono “schizofrenici”. Riprendendo la teoria del “doppio legame” di Gregory Bateson (il termine designa una forma di comunicazione auto confutante che sta appunto alla base degli studi sulla schizofrenia), Eriksen mette a fuoco una questione centrale: «Nel mondo dell’Antropocene e della crescita neoliberista fuori controllo il doppio legame tra crescita e sostenibilità è una contraddizione fondamentale. Sembra impossibile avere entrambe le cose».

In altre parole: io, occidentale progressista, sensibile ai temi ambientali, mi comporto in modo ecologicamente corretto fin dal mattino, quando esco con i sacchetti della spazzatura. Ma dipendo completamente dall’economia del carbonio e mi rallegro quando apro il giornale e scopro che dopo un periodo di stagnazione l’economia del mio Paese è di nuovo in crescita.
Oppure: io, contadino dello Shandong, ancora escluso dal miracolo cinese come altre centinaia di milioni come me, sono certo che grazie a XI Jinping il benessere presto arriverà anche qui. Quello che non so è che secondo le proiezioni contenute negli studi sulla sostenibilità, gli standard di consumo occidentale per i miliardi di persone (non solo cinesi) che ne sono ancora lontani, sono semplicemente non sostenibili. Nemmeno secondo i più ottimisti fautori delle energie rinnovabili, quelli che non considerano - come osserva Eriksen - che «il mercato dell’energia opera su scala globale, ma non è connesso alla riflessione sulle conseguenze impreviste che vengono discusse altrove».

Un recente “Energy report” del Wwf, per esempio (nonostante Trump e le grandi compagnie come Chevron, Exxon, Bp, Shell, Saudi Aramco, Gazprom...) vuole dimostrare come «entro il 2050 tutte le esigenze mondiali di energia possano essere alimentate in modo pulito, rinnovabile ed economico». «Tuttavia», prosegue il rapporto, «le fonti rinnovabili non sarebbero sufficienti a sostenere lo stile di vita energivoro e dissipatore dei paesi occidentali».

Torna allora in campo il pensiero della Fine, come pensiero radicale. Pessimista forse, ma nel senso di Günther Anders. Soprattutto come pensiero della fine di “questo” mondo, piuttosto che del mondo.
Scrivono Danowski e Viveiros de Castro nel fondamentale studio del 2014 (“Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine”, pubblicato in Italia da Nottetempo nel 2017): «Ogni giorno che passa vediamo confermarsi l’impressione che stiamo vivendo e che vivremo sempre di più, in un mondo radicalmente diminuito.[ ...] è molto probabile che la riduzione di scala delle nostre pretese e ambizioni presto non sarà più solo un’opzione». 

Qualcosa, molto, è già finito, secondo i due autori. Si tratta solo di elaborare il lutto senza cedere a una visione apocalittica, perché «ci sono numerosi mondi nel mondo». Basta saperli guardare, ascoltare.
E compiere un passo preliminare - suggerisce infine il giovane filosofo italiano Leonardo Caffo in “Fragile umanità - il postumano contemporaneo” (Einaudi): congedarsi per sempre dall’antropocentrismo, «scoprire di essere della stessa sostanza di tutti gli altri esseri viventi del pianeta». Un pianeta, secondo l’analisi visionaria di Caffo, caratterizzato da un nuovo habitat in cui «sopravvivono i postumani, nonostante le risorse in calo, perché è di meno risorse che hanno bisogno». Il postumanesimo, per il giovane filosofo, è quasi speculare al tecno-umanesimo. «È la comprensione della positività del concetto di limite: fermarsi, dove andare avanti significa violenza, è l’unico vero e paradossale modo di progredire».

Pensiero della Fine è anche allungare lo sguardo. Soprattutto qui, nel nostro “mondo dei diritti”; provando a pensare, come ha esortato Jostein Gaarder, ai diritti dei nostri nipoti. 

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