I governi ci considerano soprattutto come potenziali malati. Da qui una lunga lista di obblighi e divieti

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Tra politica e medicina si va stringendo un nodo sempre più stretto. Si tratta di una relazione da un lato inevitabile, dall’altro pericolosa. Inevitabile perché da tempo il corpo umano è divenuto obiettivo primario del governo degli uomini. Pericolosa perché questo “contagio” tra due linguaggi diversi rischia di snaturare entrambi. O almeno di esporli a strumentalizzazioni reciproche, che non fanno bene né alla politica né alla medicina.

Gli esempi li abbiamo sotto gli occhi. Da quando la campagna elettorale di Trump si è giocata in buona parte sull’attacco all’Obama care, l’estensione o la riduzione della copertura assistenziale è diventato l’epicentro dello scontro sociale in America. Ma, in forme diverse, il cortocircuito tra politica e medicina è diffuso ovunque. Anche in Italia, dove l’imposizione di procedure di profilassi, volte alla protezione non solo di singoli bambini, ma di tutti quelli con cui entrano in contatto, ha scatenato una battaglia istituzionale e ideologica tra competenze diverse. Anch’essa immediatamente politicizzata come conflitto di valori tra libertà di decidere per sé e responsabilità nei confronti degli altri. Quando poi la questione medica è entrata in cortocircuito con quella dell’immigrazione - come è accaduto nel caso della bambina morta di malaria - quel nodo tra politica è medicina ha rischiato di stringersi al punto di rendere anche quell’episodio tragico, di origine incerta, un’arma impropria da brandire a fini elettorali.

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Ma quando è nato, e che effetti genera, questo processo incrociato di politicizzazione della medicina e di medicalizzazione della politica? Alla sua origine vi è l’immagine della popolazione come un corpo sociale bisognoso di cura. Naturalmente la metafora dello Stato-corpo ha radici remotissime. Ma solo a un certo punto essa è uscita dall’ambito metaforico, per assumere un formidabile rilievo politico. Da quel momento, situabile alla fine del XVIII secolo, la gestione dei problemi sociali è stata sempre più intesa come una sorta di terapia destinata a curare disfunzioni, patologie, comportamenti devianti. In questo modo il controllo medico dei sudditi si è trasformato in un potente strumento di disciplinamento sociale. Costruzione di grandi ospedali e manicomi, attivazione di norme igienico-sanitarie, misure di contrasto delle epidemie, utilizzo della scienza demografica a fini terapeutici sono tutti effetti di questa traduzione del benessere fisico della popolazione in risorsa fondamentale dello Stato. Da allora problemi collettivi, prima considerati di altra natura, vengono poco a poco inglobati all’interno dell’ambito medico. Mentre, allo stesso tempo, la medicina dei grandi numeri è diventata un’attività con una crescente rilevanza politica. Solo una popolazione ampia e in buona salute consente allo Stato di prosperare all’interno e di vincere le guerre all’esterno. Il concetto di salute pubblica, esteso rapidamente a tutti i regimi, spesso congiunto a preoccupazioni di carattere etnico, ha costituito il perno di questa grande trasformazione.

Conosciamo le perversioni razziali che si sono prodotte quando la pretesa sanità di un popolo è stata contrapposta alla malattia congenita di altri. Ma, anche senza arrivare a questi deliri paranoici, la svolta ha riguardato tutti. La medicina sociale è divenuta qualcosa che va molto al di là di un semplice sapere, accampandosi al centro della prassi politica. Come il bene del paziente costituisce l’obiettivo del medico, quello del corpo sociale appare lo scopo dell’agire politico.

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Non c’è dubbio che tutto ciò abbia avuto effetti complessivamente positivi, misurati dal decrescente tasso di mortalità e dalla progressiva scomparsa delle grandi epidemie in larga parte del mondo. Anche se ciò aumenta il gap da un lato tra Paesi ricchi e Paesi poveri e dall’altro tra coloro che fanno della cura un costoso stile di vita e coloro che sono costretti a rinunciarvi per fare fronte ad altre esigenze più pressanti. Ma anche per la fascia privilegiata, inclusa nei processi di medicalizzazione, c’è un prezzo da pagare. Perché la messa della vita sotto tutela medica produce un’estensione incontrollata della sfera patologica.

Come hanno spiegato i sociologi della sanità Pierre Aïach (L’ère de la médicalisation) e Peter Conrad (The medicalization of society), fare della cura medica una delle prime preoccupazioni della politica significa considerare il cittadino innanzitutto come potenziale malato. Da qui un’impressionante lista di obblighi e divieti. Divieti, o forti dissuasioni a bere, fumare, praticare condotte sessuali definite irregolari, da un lato. E prescrizioni di diete alimentari, attività fisica, determinati modelli di vita dall’altro. È evidente che tutto ciò ha avuto notevoli benefici per i singoli individui e per la società nel suo insieme. Ma costituisce anche una gabbia da cui non è facile evadere. Con il forte e motivato dubbio che i vantaggi maggiori vadano alle industrie farmaceutiche e alimentari, alle palestre e ai centri di fitness.

Non solo. Ma questo dovere di essere sani - e anche in forma, non in sovrappeso, eternamente giovani - ha un costo ulteriore. Che è quello di trasformare opzioni soggettive in necessità oggettive. Se scelte politiche - relative al modello di sviluppo, alla destinazione delle risorse, o perfino alla gestione dei flussi migratori - vengono sottoposte al vaglio della medicina, rischiano di mutare aspetto. Passano, per così dire, da un orizzonte storico ad uno naturale, in cui le soluzioni sono già prescritte. Ciò che è possibile, o opinabile, diventa necessario, in base al principio ineludibile della salute pubblica - naturalmente secondo l’interpretazione che danno coloro che lo invocano. Perché ciò possa riuscire, perché prescrizioni e divieti vengano accettati, non devono apparire imposti. Devono essere fatti propri dai soggetti cui sono rivolti. I quali devono sentirsi - prima che diretti, governati, amministrati - curati dalla politica. Ma se i cittadini sono sempre bisognosi di cure da parte di politici-medici, significa che l’istituzione della malattia precede quella della salute. Proprio allo scopo di farci sentire tutti sani, ci si considera tutti potenziali malati. Solo chi diffida continuamente della propria salute e si sottopone a un continuo controllo medico, spesso riempendosi di medicine non necessarie, potrà salvaguardarsi. Anticipando con la propria condotta le terapie preventive propagandate senza sosta dal mercato della salute pubblica.

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Tutti sanno che l’industria medica, come ogni industria, è alla ricerca prima di tutto di profitti. Ma pochi si sentono di disattenderne le prescrizioni, anche quando assumono carattere di imposizione. Intendiamoci. È un’opzione inevitabile. E comunque migliore di ogni altra. Non curarsi, quando si abbiano le risorse, è impossibile. Farsi curare da altri che da medici, insensato. Quasi tutte le terapie alternative nate al di fuori dei protocolli della medicina ufficiale si sono rivelate ben presto inutili, se non dannose. Il rischio di non vaccinarsi è, per sé e per gli altri, infinitamente maggiore che quello, pressoché inesistente, di vaccinarsi.

Resta però una considerazione di fondo che tocca la concezione stessa della vita. Biologica e spirituale. La nostra condizione di malati - che continuamente ci viene ricordata infliggendoci infinite cure - è in ultima analisi incurabile. Non esiste rimedio contro ciò di cui siamo da sempre malati. Che è la nostra mortalità. Ciò vuol dire che la malattia che ci costituisce come esseri umani - la malattia del corpo e dell’anima - può essere lenita, ma non debellata. Essa, come perfino la morte, è parte integrante della vita. Anche il malato vive, sperimenta una forma di vita che ha i suoi gesti e le sue parole, le sue norme e le sue eccezioni. La malattia non è l’opposto della salute, ma un percorso interno ad essa. Così come la sanità è interna alla malattia, il suo stato migliore. E mai definitivo.