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È il personaggio che Balzac tratteggia come un «lupo» esaltato: il giocatore d’azzardo che sfida Parigi e la Francia («E ora, a noi due!»), scala - letteralmente - il bel mondo della politica e dell’alta finanza, guadagna le frequentazioni giuste, conquista rapidamente il potere. Troppo cinico per essere Renzi? Sì, va bene, stemperiamo un po’. Bisogna pur rendere giustizia al post-democristiano vivace e appassionato che, quasi senza volerlo, si ritrova nel Pd e ingaggia la sua sincera lotta contro la vecchia guardia, contro - qui pesco da I vecchi e i giovani di Pirandello - «l’avara paurosa prepotente gelosia dei vecchi», la loro «più vile prudenza».
Non basta ancora: serve il sorrisetto. Quell’espressione a metà fra ghigno e presa in giro che uno scrittore come Piccolo saprebbe raccontare benissimo. Lo spirito di chi, fingendo di commuoversi per i funerali di Berlinguer, un po’ si commuove davvero. Ma un istante dopo è già oltre, non indugia su niente, si lascia solo sfiorare, si convince presto che essere puri, in fondo, è una stronzata come un’altra. E cancella tutti i vecchi confini: parecchie pagine del romanzo con cui Piccolo ha vinto il Premio Strega nel 2014 non stonerebbero in un audiolibro letto dalla voce di Renzi. «Credo fermamente nel presente», scrive Piccolo. Ve lo ricordate il pullman che girava l’Italia con la scritta «Adesso»?
Adesso, però, quel presente è diventato passato - tanto in fretta che un libro del 2015 come Essere #matteorenzi (il Mulino) sembra già un documento storico. In ottanta pagine, l’italianista Claudio Giunta - quasi coetaneo di Renzi - accumulava elementi per una potenziale fenomenologia. La faccia «facciosa e ammiccante», il tratto da caratterista che riesce a scatenare una risata «anche solo muovendo le sopracciglia», l’eloquio veloce («parla male, ma bene»; «non conosce inibizioni perché non conosce i registri»). Ma che fine hanno fatto quella serenità e quell’ottimismo «troppo perfetti per poter essere simulati»? E l’entusiasmo contagioso? Che cosa ne è del vincente che ammira e frequenta i vincenti? «Un quarantenne - scriveva Giunta - che conserva la mentalità, la frenesia, il linguaggio, la determinazione di quando aveva venticinque anni può essere un coglione infrequentabile, uno di quelli che si schiantano facendo bungee jumping. O può essere un condottiero».
Il condottiero, per ora, è in mezzo al guado. E lo storytelling sembra congelato: il politico italiano che più si è concentrato sulla narrazione, non riesce più a narrare (tra l’altro, l’atteso libro “autobiografico” per Feltrinelli viene rinviato di continuo). E non trova chi narri di lui e per lui. Indifferenza? Prudenza? Difficoltà oggettiva di racconto?
Silvio Berlusconi, al confronto, è stato una fenomenale macchina romanzesca. Si dirà che un ventennio è un ventennio: certo, ma il personaggio-Berlusconi – quello che già nel ’94 inondava le cassette postali della sua Storia italiana – ha alimentato da subito un racconto multiforme e trasversale. «Che sia il maggior romanziere vivente, il più letto, il più seguito e amato dai lettori» è certo, scriveva Franco Cordelli nelle prime pagine di Il Duca di Mantova (2004), il libro che gli valse una querela da Cesare Previti. «Berlusconi era un normale comico, ora è il loro re, il re dei romanzieri».
Chiedo a Cordelli - a tredici anni da quel romanzo - di spiegarmi cosa è successo: «Renzi ha reso artificiose le qualità naturali del “padre” Berlusconi; quello che nel Cavaliere era naturale, in Renzi diventa voluto, volontaristico». È per questo che non funziona più? La macchina del l’ottimismo si è inceppata? «Come in gran parte della narrativa italiana contemporanea, non c’è nessuna naturalezza, si avverte solo il calcolo». Niente mitologia, niente leggenda. Nemmeno al negativo: forse solo l’avvento del babbo traffichino può in effetti innescare una commedia amarognola in salsa toscana, tra Monicelli e Virzì.
Ma quel «signorotto imbalsamato nel doppiopetto o fasciato di bandane» (© Antonio Tabucchi) “reclamava”, lui sì, letteratura e cinema a palate: «una letteratura burlesca, poliziesca, gotica, dell’horror» scriveva ancora Tabucchi nell’epilogo di L’oca al passo, nel 2006. Sono passati dieci anni, e se Paolo Sorrentino pare abbia messo da parte per un po’ l’idea di una pellicola su Berlusconi, Daniele Luchetti è al lavoro su un politico ai servizi sociali. Dopo Moretti, Faenza, Durzi, Gandini, Emmott, Sabina Guzzanti, l’ispirazione intorno al Cavaliere non langue.
Mentre Renzi, come il suo (sempre più inquieto) rivale Grillo, resta senza romanzo. Sul leader dei 5 Stelle i saggi non si contano, ma l’unico tentativo letterario - una favola iperrealista più che distopica, tra Canetti e Orwell - è stato quello di Vincenzo Latronico, classe 1984, La mentalità dell’alveare (Bompiani). L’alter ego immaginario di Grillo, Pino Calabrò, conta comunque meno della «Rete dei Volenterosi», della loro confusione “democratica”. E le opinioni del clown? Ci vorrebbe, più che Böll, un altro tedesco: quel Klaus Mann dalla penna livida, perfetta per evocare il misto tra ingegno, vanità, “purezza”, assolutismo che guida il comico di Genova. E il profilo psicologico di Virginia Raggi? Non sarebbe uno strepitoso Ritratto di signora? Nell’Italia grigetta del secondo Patto Gentiloni, c’è la calma giusta per mettersi al lavoro.
Fatevi avanti, scrittori! Nell’attesa, vale la pena rileggere lo smagliante ritratto che la drammaturga francese Yasmina Reza dedicò dieci anni fa a Sarkozy, L’alba la sera o la notte (Bompiani). Nicolas «spaccone», Nicolas «in competizione con la fuga del tempo» - la sua fretta, la sua volontà ostinata; Nicolas che dice: «Per fare questo lavoro bisogna avere una salute di ferro», Nicolas che dice: «Quando avrò chiuso con l’ambizione», Nicolas che resta solo. Il mistero umano di un politico: pane per i denti di narratori veri. «Non si rende nemmeno conto che sta deludendo»: scrive a un certo punto Reza - ed è la frase più potente dell’intero libro. Quella che meglio spiegherebbe anche l’ultima stagione di Matteo Renzi, il suo romanzo mancato.