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La selva si apre improvvisamente con una radura. Il verde delle palme, degli eucalipto e del groviglio di fusti, liane, alberi pluviali, resta sullo sfondo. Il silenzio ovattato, quasi opprimente, è interrotto da uno sciame di suoni e grida degli animali. Fatichiamo ad avanzare, avvolti da un caldo umido che ti impregna le ossa, fra tronchi spezzati, ramoscelli, frasche, foglie, sassi e rivoli d’acqua.
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Il governo ci ha invitato a verificare sul campo gli effetti pratici dell’accordo: può essere d’esempio per i tanti conflitti sparsi nel mondo. Ma adesso la delegazione è impegnata in un incontro con le autorità locali. Le comunità contadine vogliono capire il loro futuro. Su queste terre per anni ha dominato con il terrore Victor Julio Suárez, da tutti conosciuto come il “Mono Jojoy”, la scimmia. A La Macarena, tre ore di auto verso nord, ancora ricordano quando ogni pomeriggio radunava tutta la popolazione nella piazza principale e imponeva i turni di ramazza e pulizia. Duro, autore di centinaia di sequestri di persona, compreso quello di Íngrid Betancourt, grande stratega militare, amava concedersi momenti di relax a Caño Cristales, dove sorgono le pozze del fiume dai cinque colori che il comandante aveva trasformato nella sua Spa personale. È stato ucciso nel 2010.
Ne approfittiamo per spingerci due chilometri più in là e ci presentiamo al posto di controllo dei guerriglieri. Sotto un telo di plastica nero, sorretto da sei pali di bambù, davanti ad un tavolaccio fatto con assi di pino, il comandante “Ivan” ci osserva silenzioso. Ha 50 anni e per 35 ha combattuto tra le file delle Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia (FARC-EP). Ha il viso tondo, l’abbozzo di sorriso che gli addolcisce il profilo della bocca ornata da sottili baffi neri. È un combattente. L’ufficiale di un esercito. Ha il senso politico della realtà. Le Farc, come tutti i guerriglieri sudamericani, studiano. Nella piccola libreria appoggiata su un lato, portata fin qui a spalla dai soldati, ci sono classici, testi marxisti, novelle e poesie. Anche un manuale sulle tattiche da guerriglia con disegni e piantine fatte a mano.
Carlos Mercand Goméz indossa una maglietta bianca, i pantaloni della mimetica e gli inseparabili stivali di plastica che per le Farc sono un simbolo. Ricorda a stento il suo vero nome. Usano tutti quello di battaglia. «Non ho mai avuto una carta d’identità», svela con quell’ironia e i modi educati tipici dei colombiani. «Appena posso la chiederò».
Negli ultimi vent’anni, dopo la morte del “Mono Jojoy”, ha guidato il Fronte Orientale, uno dei 67 che formano l’organizzazione, a sua volta suddivisi in Blocchi e Colonne mobili. Era il Fronte combattente, quello più impegnato militarmente nella guerra. Adesso comanda una delle 19 Zonas veredales transitoria de normalización (Zvnt) che assieme ai 7 campi fissi formano i 26 punti di raccolta e sosta temporanea dei 6.700 guerriglieri pronti a integrarsi nella vita civile. Il campo, come l’80 per cento di quelli stabiliti nell’accordo firmato a Cuba, non è pronto. Manca tutto: acqua, luce, alloggi, sistema fognario, i collegamenti di telefonia cellulare e di internet.
“Ivan” non usa toni polemici. Ha cultura, passione. Ma non la retorica tipica dei quadri marxisti-leninisti. Le sue origini contadine lo tengono ancorato alla realtà. È un soldato e quindi obbedisce. E poi, è convinto della pace. «Questa guerra», dice guardando verso la boscaglia stringendo in mano una ricetrasmittente, «non poteva continuare. Non c’erano né vinti né vincitori. Anche il governo lo sapeva».
Gli chiediamo quanto abbia pesato la morte del fondatore delle Farc Manuel Marulanda Veléz, detto “Tirofijo”, di Raúl Reyes, dello stesso Rojas e poi di Alfonso Caño. Era stata eliminata l’ala militare, emergeva quella política. Il comandante scuote la testa: «No, questo lo dicono i giornali. C’era solo un grande desiderio di pace; lo voleva la maggioranza».
Nell’ottobre scorso, per tre giorni, in mezzo alla giungla, la guerriglia ha organizzato una Conferenza che ha approvato l’accordo e ha deciso di sciogliersi. Si è trasformata in un happening di musica, bevute e sballi. L’hanno chiamata la “Woodstock delle Farc”. I dissidenti sono il 6 per cento degli effettivi: circa 500 uomini del Fronte Primo, guidati da “Iván Mordisco” che, fino a qualche giorno fa, secondo l’esercito che lo ha sottoposto a un massiccio bombardamento, «controllava la coltivazione, la produzione e la distribuzione della coca verso il Venezuela e il Brasile utilizzando i grandi fiumi che attraversano i Dipartimenti di Guaviare e Guainía».
I soldi sono un problema. Ne servono molti per ricostruire e risarcire. Il presidente Juan Manuel Santos lo sa. Ha bisogno del sostegno internazionale. L’inchiesta sulla grande corruzione partita dal “sistema Odebrecht” in Brasile rischia di travolgerlo. Si muove seguendo un’agenda dettagliata e precisa. Gran parte del suo staff, in testa l’Alto commissario per la pace Sergio Jamarillo, visita ogni giorno una zona diversa. Raccoglie le obiezioni del comando dei guerriglieri. Con le richieste che vengono soppesate, spesso respinte, agitando polemiche e scambi di accuse.
Il disagio dei vecchi papaveri delle Forze armate oggi in pensione esprime il clima che si respira in un paese profondamente conservatore. In venti hanno scritto una lettera allarmata al ministro delle Difesa, Luís Carlos Villégas. Temono che le Farc creino nei loro campi nuovi territori indipendenti. «Non lasceremo dividere la Colombia», scrivono gli ex generali. Governo e guerriglia hanno subito risposto: «È un’ipotesi del tutto esclusa, già ribadita nel testo dell’accordo».
Affiancato da Andreia, una donna sulla quarantina, il comandante allarga le braccia segnate da cicatrici delle battaglie. Indica i confini dell’accampamento. «In queste condizioni», spiega, «è difficile vivere. Noi abbiamo fatto la nostra parte. Entro la data stabilita dal cronoprogramma, cioè fine febbraio, abbiamo lasciato i nostri campi e ci siamo spostati nelle zone prefissate. È stato un esodo imponente. Tutto a nostre spese. Loro dovevano fornire il materiale, gli appaltatori; noi ci concentravamo nei punti previsti. Ci chiedono di consegnare subito le armi. Va bene: siamo pronti. Ma anche qui mancano i contenitori delle Nazioni Unite per raccoglierle. Non vogliamo ingannare nessuno. Non saremmo arrivati a questo punto».
La consegna delle armi lunghe e corte, qualcosa come mezzo milione di pezzi, è il primo scoglio da superare. I nemici della pace, la risicata maggioranza che ha votato no al referendum di verifica voluto dal presidente Juan Manuel Santos, vede questa resistenza come l’ennesimo inganno da parte della guerriglia. I tre precedenti accordi, nel 1984, 98 e 2002, tutti naufragati e disdetti, sono un precedente che scotta. Soprattutto l’ultimo, quando le Farc ottennero un territorio grande come la Svizzera dichiarandolo zona smilitarizzata. Approfittarono della tregua per rafforzare il loro arsenale.
Sotto un bosco della giungla sorgono le tende di 350 guerriglieri. La salute è un tema molto sentito. Ci sono donne incinte, bambini e neonati. Gran parte dei soldati feriti in battaglia sono stati curati alla meglio. Qualcuno è diventato medico sul campo: ha operato, ricucito, amputato. «Adesso», spiega il comandante “Ivan”, «devono essere visitati e vedere di quali cure hanno bisogno. Non sono mai stati ricoverati in un ospedale».
Il futuro, più che il presente, domina i discorsi di tutti. Ognuno ha aspirazioni, progetti. La vita da soldati li ha temprati ma anche frustrati nei loro sogni da ragazzi. Sveglia alle cinque, esercizi fisici, colazione alle 8, tre ore di studio, pranzo alle 12, lezioni di tiro alle 13, giri di pattuglia e incursioni nel pomeriggio. Con il buio, tutti a letto. Senza luci, in silenzio. I rapporti sono pieni di rispetto.
Soprattutto verso le donne: mai una violenza, un sopruso, volgarità, apprezzamenti pesanti. Le Farc erano un esercito. Con la sua disciplina e le sue gerarchie. Ci sono uomini e donne anziani, giovani e giovanissimi. Joire, 25 anni, da 10 nella guerriglia, entrambe le mani amputate da un’esplosione, ama il giornalismo. «Avevo molti amici in paese», racconta. «Ci eravamo arruolati in 27. Sono rimasto vivo solo io».Non c’è guerrigliero che non stia a smanettare sugli smartphone. È la finestra sul nuovo mondo. Chattano e ridono, scherzano, si mandano messaggi con l’esterno. Nessuno può entrare o uscire dal campo. In attesa di ricostruirsi un’identità e di saldare i conti con la giustizia.
Molti guerriglieri saranno amnistiati. Se non hanno commesso reati di lesa umanità. Ma questo “colpo di spugna” è uno dei capitoli su cui hanno fatto leva la destra e la parte più tradizionalista della chiesa per strappare la vittoria, di un soffio, al referendum. Spesso usando l’arma della paura e diffondendo notizie false. Le Farc hanno colpito duro, terrorizzato, sequestrato centinaia di uomini e donne. Sono cose difficili da dimenticare. Soprattutto tra le dieci famiglie di fazenderos e cafeteros che contano e che da almeno un secolo continuano a gestire il vero potere economico in Colombia. Il comandante “Ivan” annuisce pensieroso. «C’era una guerra e in guerra saltano tutte le regole. Adesso c’è voglia di pace. Il governo deve varare il decreto di amnistia. Per ricominciare nella legalità dobbiamo essere puliti». Presto i minori saranno affidati a centri specializzati, i piccoli con le madri fatti uscire dai campi. Si procederà a sradicare le piantagioni delle foglie di coca che, secondo la Dea, quest’anno sono più che raddoppiate (810 chilometri quadrati) rispetto al 2012 quando si era registrato il punto più basso. Si cominceranno a censire le terre da restituire ai legittimi proprietari.
L’altro mondo, quello legale, è a tre chilometri di distanza. Una terra di nessuno dove sono presenti solo le Nazioni Unite, garanti dell’applicazione dell’accordo, e la Commissione di implementazione, monitoraggio e verifica (Mmev). In un cerchio più largo ci sono i soldati dell’esercito colombiano. Devono restare a distanza. Hanno il compito di proteggere i guerriglieri. Senza armi e senza più struttura possono essere colpiti, subire incursioni da parte degli squadroni della morte risorti sotto la sigla Autodefensas gaitanistas de Colombia (Aug).
In soli due mesi sono stati uccisi 230 attivisti sociali, leader delle comunità rurali, rappresentanti amministrativi e politici locali. Tornano i fantasmi del ’90, quando gran parte dei leader dell’Unión Democrática, partito in cui erano confluite le Farc, fu decimata. Ne approfittano le bacrim, acronimo di bande di criminali, pronte ad occupare i territori svuotati dalla guerriglia.