Alla 19ma edizione della rassegna cinematografica udinese in anteprima mondiale la versione restaurata di 'Made in Hong Kong', capolavoro indipendente del regista cinese. La storia di un gangster giovane e inconcludente che diventa amico di un’adolescente malata terminale

Il Far East Film Festival (dal 21 al 29 aprile a Udine) festeggia la 19ma edizione riportando sullo schermo uno dei titoli clou di quella prima volta poi diventato oggetto di culto, il capolavoro indipendente “Made in Hong Kong” di Fruit Chan. È stato lo stesso Feff a commissionare il restauro del film, curato dal laboratorio bolognese l’Immagine Ritrovata. Occasione: il ventesimo anniversario della sua prima proiezione sul grande schermo dopo il trasferimento della sovranità di Hong Kong alla Cina, nel 1997.

All’anteprima internazionale, cui parteciperà lo stesso Fruit Chan farà seguito la retrospettiva, “Creative Visions: Hong Kong Cinema 1997-2017”, da considerare a tutti gli affetti il fulcro del programma di quest’anno. Il ritorno di Hong Kong alla Cina fu accompagnato da una certa preoccupazione per la sua industria cinematografica. Ma, come ricorda il critico Ross Chen nel saggio introduttivo, quali che fossero le questioni sollevate nel cinema hongkonghese da questo ritorno controverso (restrizione della libertà creativa, conservazione della lingua e della cultura) è un fatto che l’industria cinematografica locale stesse già perdendo smalto da qualche tempo.
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Verso la metà degli anni Novanta, i film di arti marziali e in costume iniziavano a interessare meno. Dopo un po’ toccò la stessa sorte anche ai popolarissimi film sulle triadi. Ironia della sorte, è stato proprio l’indipendente “Made in Hong Kong” che ne smontava i meccanismi a rappresentare una sorta involontaria di critica a quel genere di film. O quanto meno un invito esplicito ad occuparsi di problemi veri.

La pellicola, storia di un gangster giovane e inconcludente che diventa amico di un’adolescente malata terminale, esplorava i temi dell’identità personale, con una crudezza e una immediatezza inedite. Dopo “Made in Hong Kong” temi del cambiamento e dell’identità sarebbero poi apparsi in molti altri film. I magnifici “dieci” della retrospettiva “Creative Visions” restituiscono appieno il fervore artistico e il clima che hanno contrassegnato l’ex colonia britannica in questi quattro lustri.

Si va dal memorabile “The Mission” di Johnnie To, regista emblema del cinema hongkonghese del ventunesimo secolo all’altrettanto paradigmatico “Infernal Affairs” (2002) blockbusters poliziottesco di Alan Mak e Andrew Lau, tanto ammirato da Scorsese; dal divertente “Kung Fu Hustlers” (2004) dell’attore, regista Stephen Chow, caratterizzato dai giochi di parole in cantonese e i “nonsense” spesso intraducibili che ne costituisco il marchio di fabbrica all’amatissmo “Ip Man” (2008) di Wilson Hip, ambientato in Cina nel 1935, protagonista il grande Donie Yen, maestro di arti marziali e campione di libertà contro l’invasore giapponese. Per arrivare alla cineasta della New Wave Ann Hui e al suo intimo e minimalista “A Simple Life” (2011) che descrive il rapporto tra un produttore cinematografico di Hong Kong e la sua anziana domestica. Film interessante anche perché si tratta di una coproduzione, che dimostra come gli investimenti della Cina continentale e le piccole storie di Hong Kong non siano incompatibili.