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Cultura
settembre, 2017

Teho Teardo: "Vedo con le note"

La musica dell'artista pordenonese dialoga con altre ?forme d’arte. Come nel “Viaggio al termine ?della notte”, in scena a Bologna e Firenze

La musica del cinquantunenne musicista Teho Teardo nella sua natura pare aprirsi al mondo, attratta da altre forme d’arte. Così s’intreccia l’uso che fa dell’elettronica con quello degli strumenti della tradizione e così avviene con le immagini, della fotografia come del cinema, sviluppando la particolare sensibilità mutuata negli anni a fianco di registi come Paolo Sorrentino (“Il Divo”), Andrea Molaioli (“La donna del lago”), Daniele Vicari (“Diaz”).

Queste capacità si effondono anche nello spettacolo “Viaggio al termine della notte”, con l’attore Elio Germano, liberamente tratto dal capolavoro di Louis Ferdinand Céline, in scena il 5 Ottobre a Bologna, al Teatro delle Celebrazioni, e il 6 a Firenze, presso la Basilica di Santa Croce. Un linguaggio che suscita interesse fra i giovani e che ci aiuta a comprendere quali significati, oggi, abbiano certe categorie che abbiamo ereditato dalla tradizione come “classico” o “postmoderno”.

Rock&Co
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19/5/2017
Che l’autore abbia vissuto sulla pelle questi argomenti lo si evince dal suo curriculum: infatti dalla dimensione underground dei Meathead, il suo gruppo rock in attività negli anni Novanta, alla vittoria del David di Donatello per la colonna sonora de “Il Divo”, la carriera di Teardo è costellata di progetti molto diversi tra loro. Per cominciare, gli chiediamo del suo interesse per la musica e, più in generale, una riflessione sul suo linguaggio, con particolare riguardo alle categorie tecniche e agli strumenti espressivi utilizzati.

«Nella musica cerco qualcosa che mi rappresenti, ho cominciato parecchi anni fa imponendomi una serie di limiti, una lista infinita di divieti. Procedere alla definizione di sé per negazione, per sottrazione, mi ha portato di fronte ad aspetti che non avevo neanche mai considerato. Ad esempio, trovare la musica nel suono, senza necessariamente ricorrere alla notazione. Dirlo oggi è banale, ma rendersene conto da ragazzi può avere un certo peso nei tragitti successivi».

Quando ha registrato il suo primo album?
«Lo feci che ero appena maggiorenne, utilizzando materiali di una discarica. Mia madre mi accompagnò con la sua Fiat 126, sul cui portapacchi accatastai due vecchie lavatrici, lamiere varie, taniche di plastica. Lavoravo con kerosene, fuoco, materiale plastico in combustione, carburo di calcio bagnato con acqua per produrre gas che esplodesse. Avevo un solo microfono, un eco a nastro ed un registratore a cassette che mi avevano prestato. Mi attirava l’idea di produrre suono con materiali di scarto, mi affascinava il caos in cui, ad un certo punto, accadeva qualcosa che pareva organizzato ma non lo era, assumendo una validità sonora che poi riascoltavo. Vengo da lì. Nella musica non mi formalizzo, anche se le prime volte che suonavo dal vivo le persone si irritavano, sputavano e tiravan sassi. Oh se è stato un buon inizio! Utilizzo spesso gli archi e scrivo le loro parti utilizzando la chitarra, prassi che comporta dei limiti ma anche aperture che mi fanno intravedere altri sviluppi possibili. Scrivere è una predisposizione verso quanto potrebbe accadere, non si ferma necessariamente all’immediato e non si esaurisce. C’è qualcosa di utopico che rincorro nella musica. Arriverà o forse no, ma non è così importante».

Qual è il suo rapporto con la tradizione musicale, “colta” e non?
«Diffido della definizione. Esiste musica buona e musica pessima, non colta. Credo sia un termine adottato dall’accademia nel momento che precede la fine: il breve tragitto dell’estinzione in cui si assume lo status di specie protetta. Inoltre, sento prossimo tutto il mondo dei non musicisti che alla musica hanno contribuito in maniera sostanziale, Brian Eno su tutti».

Nel 1967 il musicologo Leonard B. Meyer ha scritto che, a livello di creazione musicale, si stava profilando una stagnazione creativa e, di conseguenza, “un’estetica della stagnazione”. È ancora la fase che stiamo vivendo? Oppure è stata messa alle nostre spalle?
«Fatico a pensare che un momento paludoso per la cultura non presenti anche momenti di forte attività artistica. A questo proposito penso ad alcuni ambiti periferici rispetto all’ufficialità della musica. Se ci fossimo incontrati nel 1970, e non fossi stato solo un bimbo di quattro anni, ma un maggiorenne, avrei pensato che in quel momento, esattamente come oggi, veniva pubblicata musica straordinaria.Bisogna cercarla. Se penso al mondo dell’accademia non fatico a pensare alla stagnazione, ma altrove c’era molto che pulsava. Se ne era appena andato Coltrane, erano usciti da poco gli album di Stooges e Velvet Underground. Non oserei mai criticare Meyer, ma come la mettiamo nel caso non abbia ascoltato “Fun House”? Erano gli anni in cui il mondo accademico non osava mettere il naso fuori dall’auditorium. Ma qualcuno, da fuori, entrava e cominciava ad accendere fuochi. Un decennio fenomenale in cui alcuni musicisti di estrazione rock cercarono un collegamento con l’avanguardia, il contrario non era così probabile».

Fra i critici c’è chi sostiene che dalla suddetta, pure ipotetica, stasi creativa sarebbe derivato il postmodernismo. A suo modo di vedere, è verosimile?
«Postmoderno è un punto di osservazione che rapporta il presente costantemente al passato più recente, tutto è sempre post qualcosa. Preferirei riuscissimo a voltarci dall’altra parte per cercar di intravedere cosa sta succedendo ora, anche per immaginare cosa accadrà. È il compito degli artisti, è una visione. All’arte chiedo di essere lo spirito culturale che informa una determinata epoca. La No wave è stata una rottura effettuata attraverso una precisa visione nel contemporaneo per proiettare alcune intuizioni nell’immediato futuro. Il termine postmoderno è piazzare la macchina da presa in una direzione su quanto è già stato, un processo compiuto. Mi sembrano già secoli fa ed un mondo che non esiste più».

Moderno e postmoderno paiono dunque due parole dal significato esaurito. Eppure è nella natura della critica, della cultura, organizzare, ordinare....
«Per quanto riguarda la mia opera non penso mai ad una collocazione, so di essere artisticamente apolide, non ho un mondo o una scena di riferimento, ma sento un legame con una comunità promiscua di musicisti che è dislocata in mezzo mondo e con i quali condivido affinità, progetti, desideri. È una postazione che propende verso un’utopia, dove idealizzo musiche e conseguenze delle stesse. Il mio amico e collaboratore Enda Walsh mi disse che il nostro lavoro deve diventare molto più grande di noi, fino ad essere gigantesco. Significa che dobbiamo innescare un processo affinché la musica sia parte di una costellazione in relazione con l’universo. Non è una mania di grandezza e mi basta pensare a quanto hanno realizzato i Fugazi con la loro musica, che è finita per inventare nuovi spazi per essa, quindi nuove regole, nuovi flussi, ed un cambiamento di consapevolezza in chi frequentava quella parte di mondo sonoro. Non è poco. Mi sento anche disorientato, come quando mi sveglio di notte negli alberghi di Leeds o Amburgo, dimentico oggetti nelle varie stanze nell’inevitabile alienazione che producono i tour. La musica è anche una questione di perdite, di cose che si scordano per far spazio ad altre».

Allargando queste considerazioni al sociale: come il pluralismo stilistico si collega all’assenza di una fede in processi storici lineari, così l’eclettismo - il pluralismo all’interno di una singola composizione - può essere correlato all’indebolirsi della fiducia sulla progettazione su larga scala? Insomma, anche alla crisi della politica?
«Il lavoro di Man Ray con il cinema era all’opposto della narrazione lineare, i suoi film, Dada e il Surrealismo ne hanno fatto a meno. Eventi che scaturiscono dall’intima associazione di elementi apparentemente distanti tra loro per significato e stile. Accadeva in una dimensione profonda e personale, così personale da diventare politica».

Fra le possibilità prospettate da Meyer nel suo saggio sullo sviluppo musicale, c’era quella di una convivenza di stili diversi, conseguenza dei gusti del pubblico, divenuti astorici e arbitrari. Oggi siamo a questo punto?
«Non penso mai ai gusti altrui, non vedo perché dovrei farlo. Dai musicisti mi aspetto il loro punto di vista sul mondo, non un’indagine di mercato sulle voglie delle masse. Inoltre la musica non si limita al mondo sonoro, ha una componente visiva nata da un secolo di rapporti con il cinema e il teatro, ha fagocitato le dinamiche del sound design richieste dal cinema pur avendole anticipate in passaggi storici che vanno da Satie a Eno».

In particolare Meyer sosteneva che non sembra che si possano prevedere mutamenti radicali nell’evoluzione della musica tonale, dopo che con Mahler le possibilità combinatorie dell’armonia cromatica erano state esplorate a fondo. È così?
«È un parere che non ammette incertezze. Ci troviamo nel regno dell’indefinito e l’indeterminatezza del nostro tempo non combacia con l’assolutismo, soprattutto nell’arte. Ci sono sempre micro fratture, crepe nel pensiero, e lì passano idee, mi viene in mente il lavoro di Glenn Branca o dei Public Enemy. Cosa darei per riascoltare i loro lavori con Meyer seduto di fianco a me. Se mi sposto in Germania penso a quanto è successo con il gruppo musicale “Einstürzende Neubauten” da Berlin Atonal nell’82 in poi, perché si può rimanere in un sistema tonale senza strapparsi i capelli, utilizzando la tecnologia, magari non per gli scopi per cui è stata pensata, ed il sistema tonale viene riscritto da capo. Suppongo esista una materia oscura anche nel sistema tonale, con molto da indagare, e che il punto non sia il sistema tonale, ma come ci poniamo nei suoi confronti. È ripristinare la centralità dell’individuo?».

Eppure, oggi più che in passato, pare farsi strada un’altra via, che prevede la combinazione di procedimenti tonali con le tecniche legate ad altri stili...
«Da almeno mezzo secolo molte discipline artistiche hanno iniziato a mutuare reciprocamente elementi: il cinema e il montaggio cinematografico sono stati di grande impatto nei destini della musica. Penso anche ad un avvicinamento molecolare alla musica reso possibile dall’utilizzo del campionatore isolando minuscole porzioni di suono mutuate da dischi altrui. Senza il bisogno di scomodare degli stili, ma inventandone di nuovi, incorporando nella propria musica elementi spuri, addirittura rendendoli lo scheletro del proprio lavoro. In modo macroscopico “Endtroducing “ di DJ Shadow fu significativo quando uscì. Nella dimensione infinitesimale ci sono altri artisti che hanno recuperato detriti e porzioni microscopiche di suono. So di essere in buona compagnia anche quando il disinteresse per l’aspetto tonale tradizionale rientra nell’emisfero tonale e quindi proporrei l’ascolto del recente album degli Autechre. Suonano dal vivo completamente al buio. Quanti significati può assumere quell’oscurità in cui si muovono?».

Prendendo spunto dal Trascendentalismo di Ralph Emerson e applicandolo all’arte compositiva, l’individuo (il compositore) dovrebbe rifiutare qualsiasi conformismo (magari fondendosi con la natura, uno degli intendimenti di Cage). È una “ricetta” che trova interessante?
«Mi sento più vicino al Romanticismo circa la posizione dell’uomo, un essere minuscolo davanti all’immensità della natura, consapevolezza che forse ci avrebbe evitato di distruggere buona parte del pianeta. In quello smarrimento davanti al creato credo sia più facile recuperare Cage. Chissà cosa ci avrebbe detto circa l’imbarazzante razionamento dell’acqua che abbiamo dovuto sopportare la scorsa estate a Roma».

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