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Attualità
ottobre, 2018

Paura odio vanità: 
Mussolini fa rima con Salvini

Il segretario della Lega Matteo Salvini in visita alla spiaggia 'fascista' Punta Canna di Chioggia gestita da Gianni Scarpa, Venezia, 18 luglio 2017. ANSA/SCARPA
Il segretario della Lega Matteo Salvini in visita alla spiaggia 'fascista' Punta Canna di Chioggia gestita da Gianni Scarpa, Venezia, 18 luglio 2017. ANSA/SCARPA

Come spiega bene Michela Murgia nel suo libro più ancora che un contenuto, il fascismo è un metodo

«Fascista è chi il fascista fa», dice un anonimo maschio - «come direbbe Forrest Gump», spiega l’autrice - dal disegno di copertina di “Istruzioni per diventare fascisti”. Ed è il primo dei due messaggi importanti lanciati da Michela Murgia in questo libriccino prezioso, preziosissimo: più ancora che un contenuto, il fascismo è un metodo. Lo è sempre stato, fin da quando Benito Mussolini lo inventò, proprio cento anni fa, nell’Italia del primo dopoguerra. Il fascismo è il metodo di chi fa lotta politica non già combattendo un anniversario, ma costruendo un nemico. È il metodo ?di chi sa mascherare una realtà verticale in illusione orizzontale, di chi sa travestire il comando dall’alto in investitura dal basso, e la distanza ?del potere in comunione dei corpi. È il metodo di chi parla come mangia, e mangia con le mani come picchia con la lingua, perché sa che la politica resta, in ogni caso, potere dell’uomo sull’uomo (ancora di più, potere dell’uomo sulla donna).
 


Il suo secondo messaggio importante, Michela Murgia lo lancia attraverso un espediente pop, un gioco a quiz chiamato «fascistometro»: oltreché un metodo, il fascismo è un enzima. È un acceleratore di reazioni chimiche, un fermento che opera nel ventre di ogni essere umano. È un catalizzatore biopolitico di sentimenti primari o secondari, coerenti o incoerenti, confessabili o inconfessabili, che ciascuno di noi può ben avere provato, tanto o poco, almeno una volta nella vita. «18. Facile parlare quando hai il culo al caldo e l’attico in centro». «19. E comunque esiste una famiglia naturale». «24. A questi manca la cultura del lavoro». «31. Rottamiamoli tutti». «36. Le quote rosa sono offensive per le donne». «55. Quando ti imporranno il burqa non lamentarti». Ci piaccia o non ci piaccia, lo si ammetta o non lo si ammetta, tanti ?fra i 65 pensierini del fascistometro corrispondono ai pensieri - occasionali o ricorrenti - di molti fra noi.

Esiste, almeno in questo senso,  un «fascismo eterno»: come nel titolo della conferenza meritatamente famosa di un semiologo, Umberto Eco. Mentre non è chiaro (paradossalmente) che cosa gli storici possano aggiungere alla comprensione contemporanea del fenomeno, attraverso le precisazioni ?e i distinguo che competono all’esercizio del loro mestiere. Salvo forse – in questo centesimo anniversario del 1918 – sottolineare come anche il nostro presente, pur non discendendo dai traumi immensi di una Grande Guerra, sia il prodotto di una Grande Trasformazione che minaccia direttamente, di nuovo, le istituzioni liberali e le società democratiche. Sicché di nuovo possiamo interrogarci, mutatis mutandis, sulle keynesiane «conseguenze economiche della pace». E possiamo domandarci se quella gigantesca rivoluzione che Alessandro Baricco chiama, in The Game, l’«insurrezione digitale», non sia destinata a tradursi, da ultimo, in terreno di coltura per nuovi fascismi.

Sicuramente, l’attuale successo planetario di leader politici che parlano al ventre dei loro elettori, molto più che alla loro testa, corrisponde alla natura profonda delle comunità di appartenenza strutturate dalla Rete: comunità che funzionano – anche nel senso pubblicitario del termine – attraverso un investimento sulle qualità negative dell’essere umano, molto più che sulle sue qualità positive. Comunità che funzionano (potremmo riassumere, sin troppo facilmente) investendo su una triade da fascismo eterno: la paura, l’odio, la vanità. E sicuramente, in un futuro più o meno prossimo, l’autentica posta in gioco della lotta politica diventerà, anche nelle democrazie, il controllo centralizzato dei dati: il possesso dell’informazione come strumento ?per la manipolazione delle coscienze.

Serviranno, allora, antidoti più efficaci che una ragione illuministica ormai vecchia di secoli, deperita, sfinita. Perché - diciamocelo - la crisi dell’antifascismo è oggi, più drammaticamente ancora, crisi dell’illuminismo. Come sembra avere capito e riconosciuto, fra gli altri, l’Antonio Scurati di M. Il figlio del secolo. Il romanziere che capitalizza (in una maniera forse un po’ furbesca, ma senza rubare nulla a nessuno) su tutto quello che gli storici laureati dell’antifascismo non hanno saputo fare, per settant’anni e passa dopo la caduta del fascismo. Il romanziere che sa muoversi, lui sì, nella storia con la esse minuscola, ad altezza della vita: corpo a corpo con i suoi personaggi, ?in un’Italia di cent’anni fa dove tutto sembra parlare dell’Italia d’oggidì. Un’Italia ferita, speranzosa, tesa, ingenua, cattiva, dove l’autore di M. si comporta da antropologo del quotidiano, senza emettere giudizi di valore. E dove il lettore stesso - si direbbe - è pronto ad annoiarsi, per centinaia e centinaia di pagine mal scritte, pur di sentirsi parte di un’esperienza insieme verticale e orizzontale, moderna e antimoderna, passatista e futurista. Al limite, senza accorgersene, un’esperienza gialloverde, dove Mussolini fa rima con Salvini e dove insieme, finalmente, uno vale uno.

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