Niente metro a Bogotà. L’aveva lanciata l’ex sindaco Gustavo Petro ma la proposta langue sotto l’amministrazione di Enrique Peñalosa, liberale passato con Alianza Verde.
«Ogni sindaco promette la metro», dice Taz 231. «Fa conferenze stampa, commissiona progetti. Poi arriva il sindaco successivo, straccia tutto e riparte da zero. Lo Stato non ha soldi da investire. Dovrebbero dare le concessioni ai privati stranieri, come stanno facendo con le strade. Allora la metro sarebbe già fatta. Le quattro o cinque imprese private che controllano la Colombia non vogliono rischiare. Fanno pagare i pedaggi e la benzina più cari del Sudamerica. Però risparmiano sul cemento, come è successo con il ponte crollato a Villavicencio a gennaio. Nove operai morti. Qui non è come Italia, che i politici magari rubano ma lasciano qualcosa. Acá se lo roban todo».
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L’analisi di Taz 231, salvo un’idea ottimistica sulle infrastrutture in Italia, non fa una grinza.
I colombiani si preparano a votare l’11 marzo alle legislative e a maggio-giugno per i due turni delle presidenziali in una condizione di intolleranza verso il potere centrale, storicamente gestito da partiti di centro o di destra.
Il presidente in carica da due mandati e non rieleggibile, Juan Manuel Santos, è impopolarissimo a dispetto dei suoi legami familiari con la proprietà e la gestione di alcuni giornali prestigiosi, come il quotidiano El Tiempo e la rivista Semana.
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Anche il maggiore successo della sua amministrazione, la pace con i guerriglieri delle Farc dopo quarant’anni di morti, sequestri e distruzioni, è motivo di scontento. Non tutti accettano che le Farc si presentino al voto l’11 marzo e che alle presidenziali sia candidato Rodrigo Londoño detto Timochenko.
Nella loro seconda vita, legittimata dagli accordi firmati a Cartagena de Indias a novembre del 2016, le Farc hanno mantenuto l’acronimo o, se si preferisce, il brand. Ad agosto dell’anno scorso la dicitura Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia è stata sostituita con Fuerza alternativa revolucionaria del común. Farc ha incassato l’amnistia e il diritto a una rappresentanza parlamentare di almeno dieci seggi, cinque alla Camera e cinque al Senato.
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Ma molti comizi Farc sono stati sospesi per disordini. Le ferite sono profonde in un paese che ha l’abitudine alla guerra civile: ne sono state contate ventitré nei 207 anni dalla liberazione bolivariana. Timochenko non rischia certo di vincere le elezioni. Un altro ex guerrigliero è dato in cima ai sondaggi. È proprio Petro, nato nel 1960, e arruolatosi a diciassette anni nel movimento di ispirazione marxista M-19. Il suo nome di battaglia, Aureliano, era una dedica al colonnello Buendía, protagonista di “Cent’anni di solitudine” del premio Nobel per la letteratura Gabriel García Márquez detto Gabo.
Con un bisnonno paterno italiano e garibaldino sbarcato in Colombia sul finire dell’Ottocento in piena guerra civile fra liberali e conservatori, Petro ha alternato studi economici e clandestinità fino al 1985, quando è stato arrestato dall’esercito, torturato e incarcerato per due anni.
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Le sue denunce della “parapolitica”, ossia dei legami fra i paramilitari finanziati dai narcos e i governanti al massimo livello ne hanno fatto il bersaglio di minacce. L’ex presidente Álvaro Uribe, leader riconosciuto della destra (Centro democrático) in rapporti di antica conoscenza con la famiglia Ochoa del cartello di Medellín, lo detesta. Allarmato dai sondaggi, ha scatenato una campagna che identifica Petro come esponente del “castrochavismo”. Se l’ex guerrigliero marxista vincerà, dicono gli uribisti, il Venezuela di Nicolás Maduro al confronto sembrerà un paradiso.
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Sebbene Petro abbia sempre criticato la politica economica di Maduro, l’allarmismo è ben scelto. I 2219 chilometri di frontiera comune fra Colombia e Venezuela sono presi d’assalto costantemente da venezuelani in fuga dalla fame. I passatori attivi al confine nella zona di Cúcuta chiedono 20 mila pesos (circa 6 euro) a chi va a piedi, 30 mila a chi va in moto e 100 mila a chi è in automobile. Tanto per chi non ha niente. Il pedaggio finisce in tasca alle Bacrim, le bande criminali, o all’Eln, l’Ejército de liberación nacional che controlla larga parte del dipartimento Norte de Santander, dove si concentrano i passaggi.
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Solo nel 2017, secondo l’ufficio colombiano per l’emigrazione, sono entrati 800 mila venezuelani. Due terzi di questi sono rimasti nel paese. I più fortunati lavorano sfruttati dalle imprese dell’economia colombiana. Molti si arrangiano con il contrabbando di benzina, che nel paese più ricco di petrolio al mondo costa venti volte meno che in Colombia. Altri chiedono l’elemosina e dormono per strada. A ogni angolo nelle periferie delle città principali c’è una struttura improvvisata, spesso due sedie e un tavolino pieghevoli o la panca di un giardino pubblico, che promette il trasferimento di soldi a Caracas dove 5 milioni di lavoratori colombiani si sono trasferiti ai tempi del boom petrolifero negli anni Settanta.
Nonostante ogni fine settimana il ponte internazionale Simon Bolívar di Cúcuta si affolli di gente dal lato del Venezuela, i colombiani non sembrano impressionati dallo spettro del castrochavismo.
Che Petro sia il prossimo Maduro è altamente improbabile. Già alle presidenziali del 2010 il guerrigliero economista, eliminato al primo turno, ha dato prova di realismo politico appoggiando al ballottaggio il centrista Santos.
Negli ultimi sette anni la Colombia è cresciuta a un tasso anno medio che sfiora il 4,5 per cento anche se il reddito medio annuo pro capite (5805 dollari) è meno della metà dei paesi più avanzati dell’area, Cile e Argentina.
Il giocattolo è fragile. Romperlo, da queste parti, non significa smettere di giocare. Significa ricominciare a contare morti. Se i sondaggi meritano fede, i colombiani non vogliono più credere ai fantasmi agitati da altri fantasmi, gli uribisti del giovane avvocato Iván Duque, tanto che al momento l’avversario più pericoloso di Petro è il suo ex compagno di partito Sergio Fajardo, alla guida della principale coalizione di centro-sinistra (Polo democrático alternativo-Verdi).
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Eppure la Colombia è una scena letteraria dove il passato non passa mai. Dopo i romanzi dedicati alle lotte politiche che hanno insanguinato il paese e ai massacri nelle piantagioni di banane, oggi le serie tv raccontano l’epopea nera dei cartelli della cocaina. I baroni del narcotraffico hanno fissato i loro nomi non immaginari nell’immaginario narrativo di una nazione. Lo scrittore colombiano emergente Juan Gabriel Vásquez inizia il romanzo che gli ha dato la fama internazionale (“Il rumore delle cose che cadono”, 2011) con l’immagine di un ippopotamo in fuga. Non è realismo magico. È cronaca. La bestia arriva dall’Hacienda Nápoles, la residenza principale di Pablo Escobar Gaviria, fondatore del cartello di Medellín e protagonista di film colombiani e statunitensi. “El Patrón” aveva importato animali esotici che hanno proliferato al riparo dell’Hacienda Nápoles, diventata parco nazionale, e che ogni tanto seminano il panico nelle vie di Puerto Triunfo, la cittadina confinante con l’ex finca di Escobar.
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Dalla cronaca al simbolo, per oltre due decenni a partire dagli anni Ottanta, la Colombia è stata massacrata dai pachidermi del narcotraffico di Medellín e Cali, dalla guerriglia rivoluzionaria, dagli “autodefensas”, gli squadroni paramilitari creati dai latifondisti in funzione anti-guerriglia e dai reparti dell’esercito che sequestravano e uccidevano pacifici cittadini per poi presentarli come terroristi, i cosiddetti falsos positivos, e incassare i premi del governo.
Il terrore ha cambiato il volto al paese. Tre quarti dei 49 milioni di colombiani hanno abbandonato la campagna e si sono trasferiti in città. Nei cinque centri urbani più popolati vivono 15 milioni di persone. Trentuno città superano i 200 mila abitanti. In Italia, che ha dieci milioni di abitanti in più e circa un quarto della superficie territoriale, ce ne sono appena quindici.
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Vent’anni fa in Colombia c’erano 30 mila omicidi all’anno. Oggi ce ne sono 12 mila, 24 ogni centomila abitanti contro gli 89 del vicino Venezuela e lo 0,65 nell’Italia asseritamente flagellata dalla delinquenza migratoria.
Per arrivare quanto meno al ballottaggio, i centristi al governo puntano l’indice verso la metà piena del bicchiere, dove non ci sono più i cadaveri eccellenti uccisi da Escobar, dalla guerriglia, dagli autodefensas dei fratelli Castaño. Non ci sono più i camion-bomba, gli aerei di linea esplosi, gli assalti ai tribunali, i giornalisti rapiti e fatti sparire dai narcos di cui parla “Notizia di un sequestro” di García Márquez, immenso cronista prima che immenso scrittore.
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Però ci sono i morti sul lavoro come gli operai di Villavicencio, che non entrano nelle statistiche degli ammazzati. Ci sono le vittime dell’Eln, il maggiore movimento terroristico ancora non pacificato che il 27 gennaio ha raso al suolo una stazione di polizia a Barranquilla (sette agenti morti) e che ha sospeso la trattativa con il governo Santos, tenuta in campo neutro a Quito.
Ci sono soprattutto i “líderes sociales”, quei politici di base che si occupano di diritti umani, di sindacato, della sopravvivenza delle comunità indigene.
Qui i dati sono in crescita. Nel 2014 sono stati assassinati 55 “líderes sociales”. L’anno dopo, 63. Nel 2016, ottanta e l’anno scorso oltre cento. Soltanto nei primi quaranta giorni del 2018 ne sono caduti venti, molti nelle zone che ancora sfuggono in buona parte al controllo statale. In queste aree la joint-venture fra terrorismo, paramilitari e trafficanti di droga sembra ancora in salute.
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Nella Colombia del cambiamento, la coca resta il fattore di destabilizzazione per eccellenza.
Il programma di sradicamento e di sostituzione delle piantagioni, certificato dall’United nations office on drugs and crime (Unodc), procede con difficoltà. Dal 2015 al 2016 l’area delle coltivazioni è aumentata del 52 per cento da 96 mila a 146 mila ettari, una superficie di poco inferiore a quella della provincia di Milano. Produzione (866 tonnellate) e sequestri (378 tonnellate) sono andati all’incirca di pari passo. La Dea, l’agenzia antinarcotici del governo di Washington, stima che il 92 per cento della cocaina sequestrata negli Stati Uniti arrivi dalla Colombia.
Il governo Santos si era impegnato a eliminare 100 mila ettari di piantagioni entro le elezioni presidenziali di maggio. Ma a fine gennaio soltanto un terzo dell’obiettivo era stato raggiunto a dispetto di incentivi economici sostanziosi per i contadini che decidono di uscire dalla catena produttiva della cocaina.
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Il grosso della produzione si concentra nelle regioni al confine con l’Ecuador (Nariño e Putumayo) nell’area che si affaccia sul Pacifico. Al terzo posto viene il dipartimento Norte de Santander, reso ancora più instabile per la presenza della guerriglia Eln e della migrazione venezuelana.
Rispetto ai tempi d’oro di Escobar e dello “Scacchista” di Cali Gilberto Rodríguez Orejuela è cambiata solamente la catena distributiva. I colombiani si limitano a produrre mentre l’export in direzione degli Stati Uniti è finito in mano ai cartelli messicani, presenti sul territorio con le principali organizzazioni: gli Zeta, gli Jalisco Nueva Generación e i loro rivali diretti, gli uomini del cartello di Sinaloa guidati dal “Chapo” Joaquín Guzmán.
Per l’Europa il socio d’affari preferito rimane la ’ndrangheta calabrese con segnalazioni alla Procura distrettuale di Reggio Calabria sui rapporti preferenziali con presunti ex leader delle Farc smobilizzate che hanno ritenuto più utile rimanere nel business della coca, come l’“extraditable” Osías Riasco Campo.
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Le tracce dei vecchi capi sopravvivono sulle magliette stampate con la faccia di don Pablo Escobar. Restano nei bei quartieri di Bogotà, fra i palazzi che echeggiano lo stile neo-Tudor della capitale. Nel quartiere chic della Cabrera, in mezzo ai condomini e ai giardini ben pettinati, un muro di pietra grezza pericolante nasconde la residenza in rovina di Gonzalo Rodríguez Gacha detto el Mexicano. Il più feroce dei soci di Escobar, capo dell’ala militare del cartello con una truppa di oltre mille soldati, è stato l’inventore del narcoparamilitarismo e l’ideatore di Tranquilandia, il laboratorio di raffinazione della coca che dava lavoro a duemila persone in piena giungla.
Gacha è stato ammazzato dall’esercito alla fine del 1989, uno degli anni più cruenti nella storia recente del paese con circa trecento attentati terroristici seguiti alla pubblicazione della lista degli “extraditables”, i narcos da estradare nelle scomode carceri degli Usa.
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Ci sono voluti quasi trent’anni perché lo Stato riuscisse a concludere la cessione della residenza bogotana confiscata al Mexicano. L’acquisto che nessun colombiano ha osato fare, lo hanno realizzato i cinesi a novembre dell’anno scorso. Per 50 miliardi di pesos (circa 14 milioni di euro) il governo di Pechino abbatterà le palazzine in rovina e costruirà la sua nuova ambasciata dietro il muro di pietra dove una volta parcheggiavano le Rolls e le Jaguar del Messicano.