Davanti ai giudici di primo e secondo grado siamo stati insultati e denigrati, chiamati anche «stampa cialtrona». Abbiamo riportato fatti documentati, e ignorato i messaggi violenti, proseguendo nel nostro lavoro, che è quello di informare
Da martedì 11 settembre c’è il bollo dei giudici della Corte d’appello: è “mafia Capitale”. L’associazione che ha dominato Roma ha sfruttato il metodo già collaudato da Cosa nostra e ’ndrangheta per pilotare la politica comunale e regionale e la pubblica amministrazione, ha intimidito, minacciato, praticato la violenza. Il “nero” Massimo Carminati è il leader indiscusso di questa organizzazione, con la sua capacità di sfruttare la propria fama di criminale per fare affari con il “rosso” Salvatore Buzzi, anche lui condannato per mafia. Hanno inquinato l’economia e gli appalti della città, mettendosi in tasca soldi pubblici, cioè soldi dei cittadini.
Come accade nei classici processi di mafia, gli imprenditori e i commercianti coinvolti nella ragnatela di Carminati e Buzzi hanno fatto scena muta, alcuni che avevano ammesso in fase di indagine le violenze subite hanno ritrattato, altri si sono sentiti male, in aula, mentre erano sullo scranno dei testimoni al solo apparire del “Cecato” dagli schermi collegati con il carcere in cui era detenuto. Qualcuno ha confidato agli investigatori che ha deciso di non parlare per «avere salva la vita». La trascrizione è agli atti. Perché di compari ancora liberi, pronti a tenere in piedi la rete criminale, Carminati ne ha ancora. Lo sa bene chi vive sul territorio all’interno del Grande raccordo anulare.
È in carcere, ma solo sentir pronunciare il nome di Massimo Carminati fa ancora paura. Questi aspetti di vita quotidiana non sono facili da riversare negli atti giudiziari destinati ai giudici. Invece è possibile raccontarli, mostrarli, documentarli con il lavoro giornalistico. È il compito che spetta a chi fa il nostro lavoro. Un’opera che i mafiosi temono molto. È quanto ha fatto dal 2012 L’Espresso.
«Conoscere per deliberare» era il motto di Luigi Einaudi. E quindi è fondamentale informare, ma anche spiegare, approfondire. Cioè, non occorre solo parlare delle buche nelle strade, ma delle altre voragini che rimangono aperte. In questi anni siamo stati accusati, da qualche difensore, di «aver condizionato i magistrati». Davanti ai giudici di primo e secondo grado, mentre gli imputati annuivano, siamo stati insultati e denigrati, chiamati anche «stampa cialtrona». Abbiamo riportato fatti documentati, e ignorato i messaggi violenti, proseguendo nel nostro lavoro, che è quello di informare. La vergogna però rimane su chi insolentiva nelle aule giudiziarie persone estranee al processo.
[[ge:rep-locali:espresso:285286092]]Fin da subito abbiamo chiarito più volte che la pericolosità di “mafia Capitale” non può essere confrontata con quella delle mafie tradizionali. Ma il codice penale è chiaro. L’associazione di tipo mafioso non è solo quella con centinaia di affiliati, che controlla militarmente il territorio e ricorre all’esplosivo o alla lupara.
L’elemento decisivo è il metodo mafioso, la forza di intimidazione del vincolo associativo. Sapere che c’è chi è pronto a usare la violenza, condiziona la volontà, determina le scelte delle persone che ci entrano in contatto. È ciò che è avvenuto a Roma.
Mafia Capitale è stata definita “originaria e originale”. Originaria, perché è romana. Gran parte degli imputati sono romani e, comunque, non ci sono né calabresi né siciliani né campani. Non c’è, quindi un collegamento con le mafie classiche. E si può dire originale perché ha caratteri propri, e rispecchia molte delle caratteristiche “romane” della società in cui agisce.
È una mafia che non controlla il territorio, non chiede il pizzo ai commercianti, non lascia (quasi mai) morti per strada. E capita che, se non si vede il sangue, si dimentica l’esistenza delle cosche. Succede persino a Palermo, dove da quasi vent’anni gli omicidi riconducibili alla mafia si sono ridotti a pochi casi. Ma non per questo si può dire che Cosa nostra non c’è più, è scomparsa. Si è mimetizzata, ha cambiato pelle, si è resa meno visibile. Non ha più utilizzato le armi. Ha adottato una nuova strategia, più “discreta” per coltivare i propri affari, che, non va mai dimenticato, sono il “core business” di ogni organizzazione mafiosa. E la strategia è stata copiata anche fuori dalla Sicilia.
Dunque “mafia Capitale” ha caratteristiche sue proprie. Non è una struttura rigida, anche se è stato identificato un capo, Massimo Carminati, e altri due personaggi con un ruolo di vertice: Riccardo Brugia per l’aspetto “militare”, e Salvatore Buzzi per quello economico, basato sui rapporti con la pubblica amministrazione. Tutti e tre uomini con un passato da detenuti, condannati per reati gravissimi, e poi nuovamente tornati sulla scena della malavita romana. Non c’è un territorio vero e proprio che diventa oggetto di controllo, ma l’associazione possiede lo stesso una grande capacità di intimidazione, e poi sa trovare equilibri e sinergie con gli altri mondi criminali, ma anche economici e istituzionali. Per questo è mafia. E come quelle tradizionali, preferisce sempre più esercitare il suo potere attraverso la corruzione, piuttosto che con la violenza omicida. Che certo accende di più l’attenzione della magistratura, dei media, dell’opinione pubblica.
Altra caratteristica di quest’associazione mafiosa è la sua trasversalità. Basta fare riferimento ai trascorsi politici dei protagonisti: Carminati e tutta la sua filiera vengono dall’estrema destra, Buzzi dalla sinistra. Come spiega lo stesso Buzzi a un amico che gli chiede come mai abbia rapporti con un fascista come Carminati: la politica è una cosa, mentre «gli affari sono affari».
Un’ultima cosa da non dimenticare. La sentenza della Corte d’appello (sempre aspettando il pronunciamento definitivo della Cassazione) rende giustizia alle vittime del metodo mafioso. Anche a Roma si può denunciare e avere giustizia. Nonostante le relazioni degli imputati con i potenti, questi reati non finiscono più insabbiati nei sotterranei del Palazzo di Giustizia.