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Tra tutti gli epifenomeni di questa crisi della democrazia liberale rappresentativa, Brexit è senz’altro il più surreale. Come nel capolavoro di Buñuel, l’Angelo sterminatore - dove gli invitati non riescono ad andarsene dalla casa patrizia nella quale hanno trascorso il dopoteatro nonostante la porta sia aperta - i britannici, anzi, una volta tanto gli inglesi, non riescono a mollare l’Ue. Il meccanismo democratico è inceppato e continua a rimbalzare alla volontà popolare. Di mezzo ci va il bipolarismo perfetto, mentre l’assicella dell’uscita, con o senza accordo, è stata di nuovo spostata avanti: stavolta al 31 gennaio. Non si può certo dire che l’Europa se ne stia con le mani in mano: dopo l’anniversario della caduta del Berlin Wall, ecco alzarsi il Brexit Wall.
Il Paese è ancora trafitto dal cuneo della disunione: lo sono i due maggiori partiti di maggioranza e opposizione, governo e Parlamento; lo sono famiglie, colleghi, fratelli, amici, coppie, il Nord e il Sud. E naturalmente lo è l’Unione stessa: se la destra Tory più esagitata è pronta in cuor suo a mollare l’Irlanda del Nord in un fino a poco tempo fa del tutto inimmaginabile scenario che la vedrebbe gradualmente tornare in seno alla repubblica d’Irlanda (la questione bizantina del backstop), così il partito laburista di Jeremy Corbyn, in cambio di sostegno nella corsa al premierato, potrebbe aprirsi alla concessione di un altro referendum alla leader nazionalista Nicola Sturgeon che, questa volta, rischierebbe verosimilmente di sancire il distacco della Scozia. Quanto al Galles, che al contrario della Scozia ha votato per la maggioranza a favore di Brexit, sta conoscendo un rilancio nazionalistico che potrebbe verosimilmente spingere il relativo partito, Plaid Cymru, a richiederne uno a sua volta. Insomma, tutto il delicato costrutto dell’Unione, che risale al Settecento, è in via di disgregazione. Lenta, ma forse irreversibile. Brexit è stata la reductio ad unum politica con cui un elettorato che si credeva post-politicizzato ha rivendicato la propria sovranità, soprattutto in chiave anti-immigrazione. Il tradizionale “pragmatismo” deve vedersela con una nuda ideologia sovranista intrisa di nostalgie imperiali che, mentre strilla libertà dal giogo europeo, sceglie di ignorare l’autolesionismo economico che questa comporta.
Come la madre del parlamentarismo abbia fatto a precipitare in quest’imbarazzante impasse è per un almeno duplice ordine di ragioni: quella socio-economica e il suo assetto costituzionale ed elettorale. La Grande Recessione del 2008, concausata da una finanza anarcoide, fatta pagare all’economia reale e culminata con un acuirsi delle disuguaglianze aggravato da un’austerity draconiana che ha sospinto nell’assoluta indigenza una grossa fetta degli strati più vulnerabili, ha avuto la strada spianata da un quindicennio di dominio New Labour ed è stata “curata” dal successivo decennio di governi conservatori col solito rimedio peggiore del male. Lo schiacciamento della redditività della lower middle class si è riflettuto nelle rispettive traiettorie dei due maggiori partiti: la destra Tory, pur di contenere la minaccia prima dell’Ukip, poi del Brexit Party di Nigel Farage, ha finito per consegnarsi a Boris Johnson, un opportunista cui mai e poi mai in tempi “normali” avrebbe dato le chiavi di Downing Street. Bisogna dargli atto di averci provato, affidandosi prima a una figura “vecchia scuola,” rispettabile e moralmente integra pur nella sua rigidità e mancanza di visione: Theresa May. Ma la palude era troppo vischiosa e May una remainer troppo pavida degli ultrà eurofobici tra i suoi.
Il partito laburista è a sua volta nel pieno di una guerra civile ancora non pacificata. Il “marxista” (che come molti laburisti inglesi, anche “radicali”, di Marx avrà letto al massimo un compendio) Jeremy Corbyn, eletto dalla base, è in aperto conflitto con il proprio gruppo parlamentare che ha cercato di farlo saltare un paio di volte senza successo e ora ne colpisce l’essere filopalestinese (fenomeno inedito: il Labour è sempre stato ovviamente filo-Israele, filo-Nato, “interventista”, filo-nucleare ecc.), sfruttando le pur innegabili derive antisemite purtroppo presenti anche tra le fila dei militanti laburisti. Con infinita irritazione alla sua destra, Corbyn ha seguito un cerchiobottismo strategico su Brexit che serve a non perdere del tutto il consenso della base operaia del partito, che i suoi predecessori Blair/Brown/Miliband avevano invece mandato spensieratamente in malora. Tradizionalmente euroscettico, come già il suo mentore Tony Benn, mollerebbe anche la membership europea se questa valesse la realizzazione di un nuovo “socialismo in un solo Paese,” anche se ha promesso che, se eletto, rinegozierebbe l’accordo di uscita per poi indire un secondo referendum per rimetterlo alla volontà popolare. Ma il semplice fatto che si presenti alle urne nel Paese feticcio del liberismo economico con un programma incredibilmente redistributivo (ampie nazionalizzazioni, tasse ai più abbienti, compartecipazione operaia, istruzione superiore semigratuita, tanto per citarne alcuni) autorizza a parlare di fantapolitica.
Tutti questi fattori eminentemente strutturali trovano poi la propria declinazione nell’architettura costituzionale. «In Gran Bretagna, i commentatori della costituzione se la passano bene, giacché non abbiamo una costituzione».Questa battuta di Vernon Bogdanor, illustre “non” costituzionalista del King’s College (e, fatidicamente, maestro di David Cameron) definisce in maniera volutamente lapidaria l’oralità della costituzione inglese, il suo basarsi sulla consuetudine. Una consuetudine dove la sovranità è prettamente parlamentare e dove il potere legislativo può fare il bello e il cattivo tempo. L’istituto referendario, così maldestramente scatenato dal suo allievo nel 2016 tanto per mettere a tacere, almeno per una generazione, l’euroscetticismo della destra del suo partito, è entrato nel metabolismo della Common Law proprio - e non senza ironia - quando il Paese ha fatto il suo ingresso (tormentato) nell’allora Comunità economica europea, nel 1975.
Il resto è storia: se allora il Regno Unito era il “malato d’Europa” che entrava nella prospera Cee grazie al suo rinomato “pragmatismo” proprio attraverso la porta referendaria, sarebbe uscito quarantun anni dopo dall’Europa malata grazie a un potente cocktail di crisi economica shakerata nell’ideologia. E se Brexit, quest’araba fenice dal nome impoetico che il popolo britannico ha scelto di scarso margine (lo ricordiamo, 52% contro 48%) nel 2016, ha finora macinato tre Premier e innumerevoli ministri senza che ancora s’intraveda il modo di realizzarla, forse non c’è poi troppo da meravigliarsi.