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Dell’arretramento generale, che ovviamente conosce gradazioni differenti nei diversi paesi europei, si sono giovati i due termini tradizionali della dialettica politica: la destra e la sinistra. Mentre l’anno si chiude con la vittoria conservatrice nell’isola britannica, la penisola iberica ha, per esempio, registrato una conferma delle leadership progressiste di Antonio Costa e Pedro Sanchez, ancorché quest’ultima abbia parecchio da sudare per restare in sella, considerato il galoppo concitato della politica spagnola.
La vittoria di Boris Johnson guarda però avanti. Uno sguardo che si spinge fino al novembre del 2020, quando negli States si terranno le elezioni presidenziali, vero e proprio referendum su Donald Trump. E non è un caso che il presidente americano sia stato il primo a congratularsi col premier britannico, ribadendo il senso politico di una special relationship che s’incarica di riconquistare la ribalta globale, dopo l’ultima interpretazione che ne diedero George W. Bush e Tony Blair.
Il 2020 potrebbe davvero essere l’anno della destra. Stando a quanto si vede nel dibattito delle primarie democratiche, non sembra al momento emergere una candidatura che possa insidiare The Donald. L’onda blu che si era mostrata alta e fragorosa nel Midterm del 2018, ha perso vigore nelle varie elezioni (per i governatori, le assemblee legislative statali, gli scranni della Camera dei Rappresentanti) che si sono succedute nello scorso autunno. In novembre Trump potrebbe confermarsi presidente - e la conquista di un secondo mandato rischia di essere addirittura più sorprendente dell’inattesa vittoria del 2016.
Un anno, il 2020, che si è idealmente aperto con la vittoria della destra nel Regno Unito, potrebbe così chiudersi con il prolungamento del soggiorno trumpiano alla Casa Bianca. Una marea conservatrice che potrebbe allargarsi in tutta Europa e pesare molto nel rinnovo dei 35mila consigli municipali francesi del prossimo mese di marzo, test elettorale cruciale per Emmanuel Macron. Il quale, d’altronde, è alla costante ricerca dei venti conservatori per gonfiare le sue vele e non perde occasione di puntare su uomini e donne di destra: dalle scelte primigenie del suo governo, il primo ministro Edouard Philippe o il ministro dell’economia Bruno Le Maire, fino alle più recenti di Christine Lagarde per la presidenza della Bce o del neo commissario europeo Thierry Breton.
La destra sembra, insomma, essere molto a suo agio nei tempi complicati che viviamo. Riesce, molto meglio della sinistra, a prosciugare le riserve d’acqua che il populismo è andato accumulando negli anni scorsi, essendo più persuasiva nell’intercettare l’elettorato in uscita dai partiti populisti o sfiduciato dai loro leader. È il caso di Boris Johnson che, in un gioco pianificato e coordinato, ha conquistato milioni di britannici che alle europee avevano votato per Nigel Farage e la sua compagine antieuropeista. Un caso che potrebbe replicarsi in Italia, qualora si tenessero elezioni anticipate, con la leadership di Matteo Salvini.
Il 2020 si candida a essere l’anno di una destra molto originale, capace di tenere unito un ampio campo di centrodestra quanto mai eterogeneo e pieno di contraddizioni: talvolta tentando di praticare una sintesi delle numerose istanze di rappresentanza civile, sociale ed economica; talaltra semplicemente giustapponendole tra loro e facendole coesistere in contrapposizione alle minacce esterne (dalla competizione con la Cina all’insidia del terrorismo) o a quelle interne (le varie sinistre nazionali).
Non si può dire che questa nuova destra abbia una strategia internazionale e connetta in un disegno generale le alterne ricette che le destre nazionali hanno singolarmente approntato. Non si può dire ancora, per lo meno. Eppure hanno tangibili tratti in comune. Anzitutto una forma di neonazionalismo, tradotto coerentemente sia in una certa chiusura verso i flussi migratori, sia in forme di protezionismo economico. Quindi la riproposizione di un conservatorismo di forme culturali e di abitudini quotidiane, nonché di qualche vecchio simbolo identitario, volto a rassicurare le decine di milioni di cittadini occidentali che avvertono la globalizzazione come una crescente minaccia.
È una destra realista, che registra come la globalizzazione abbia agito quale motore espansivo di opportunità molto più all’esterno dei confini occidentali, che al suo interno. Tale realismo, se viene accusato di essere troppo compiacente con le paure diffuse dalle nostre parti, nondimeno è in maggiore sintonia con l’umore di incertezza e precarietà diffuso egualmente tra giovani, adulti e anziani come mai era accaduto prima, almeno dai tempi della seconda guerra mondiale.
La nuova destra mostra di aver capito a fondo che, ormai da anni, il motore che domina la meccanica della rappresentanza è la domanda di protezione. Poco importa che a volte, alla ricerca di facili rassicurazioni, opponga alla complessità delle domande di protezione un eccesso di semplificazione. Non avendo risposte alternativa dal campo progressista, l’Occidente impaurito che si sente sotto assedio (ne scrive con acutezza Maurizio Molinari, nel suo ultimo libro) si lascia guidare da chi almeno ha il merito di non eludere le domande reali.
Gli effetti geopolitici di sistema dell’avanzata della destra sono abbastanza prevedibili. È chiaro che un’affermazione sempre più frequente del fronte conservatore potrebbe stabilizzare il quadro politico occidentale, con effetti sia domestici che globali. Nelle democrazie liberali d’Occidente, la stabilizzazione potrebbe dare il colpo di grazia ai movimenti populisti. Nella competizione tra le liberaldemocrazie e i paesi non democratici, sta invece già riconfigurando alcuni instabili equilibri regionali (e nel marzo 2020 si voterà, per la terza volta di seguito, anche in Israele).
Contro un campo largo del centrodestra che trova la propria guida in un siffatto originale conservatorismo, il campo stretto del progressismo arranca. Se a destra riescono a convivere istanze diverse e a marciare abbastanza unite, anche quando non trovano sintesi, le anime della sinistra hanno ripreso a combattersi tenacemente. Le primarie dei democratici americani ne sono la più fedele cronaca giornaliera.
Ma al di là dei conflitti endogeni e della frammentazione, la sinistra sembra tremendamente faticare a rispondere a quella imperante domanda di protezione che oggi articola e definisce la dinamica politica. Una fatica di pensiero, perché non sembra capace di elaborare soluzioni originali ai problemi odierni. Ma anche una fatica sentimentale, poiché quella domanda la mette istintivamente disagio. E se forse la prima si può dissimulare, la percezione di quel disagio è quanto di più diffuso oggi circoli tra le persone, soprattutto tra chi un tempo votava a sinistra e si è stancato di sentirsi dire che le cose, in fondo, non vanno poi così male.