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Cultura
marzo, 2019

Viaggio alla scoperta del Louvre Abu Dhabi, il museo che celebra la tolleranza

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Il Corano e la Madonna. Socrate e Buddha. Negli Emirati si esalta ciò che unisce le civiltà. L’era comune dell’uomo. «Investire in conoscenza è una strategia del Paese: quando il petrolio finirà, sarà la cultura a sostenere l’economia»

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Iside, dea della fertilità dell’antico Egitto, allatta Horus accanto a una Vergine col bambino. Uomini a capo chino pregano dall’antica Grecia fino al Gabon. Figure di cavalieri si fronteggiano fieri, dall’Iran alla Cina. Una teca custodisce un aroma prezioso e conturbante: le strade dell’incenso riuniscono incensiere del Medioevo toscano e dell’Oman, limoges francesi e porcellane cinesi.

Meraviglia tra sabbia, cielo e mare, è il Louvre Abu Dhabi: straordinaria opera architettonica per il primo museo universale del mondo arabo. Un’isola dentro un’altra isola destinata interamente alla cultura, Saadiyat. Che affiora dall’acqua come un sito archeologico. Capace invece di parlare di futuro come pochi altri luoghi al mondo.

L’ha ideata l’archistar francese Jean Nouvel questa costruzione che conferma l’età dell’oro degli Emirati Arabi. Neanche cinquant’anni di storia, una crescita vertiginosa resa possibile dal tesoro del sottosuolo - quasi il 10 per cento delle riserve globali di petrolio e di gas - e un’ambizione divenuta un’ossessione: puntare sulla conoscenza. E imporsi al mondo come polo culturale. Crocevia di bellezza, accoglienza, inclusività. E tolleranza, parola magica che è mantra, slogan, brand: alla tolleranza è dedicato l’anno in corso, iniziato con la visita di papa Francesco; a occuparsi di tolleranza è preposto addirittura un ministero. Logico che il suo ultimo polo d’attrazione - il Louvre, punta di diamante di relazioni con la Francia avviate già nel ’74 dal lungimirante sceicco Zayed bin Sultan Al Nahyan, padre degli Emirati Arabi Uniti (proclamati il 2 dicembre del 1971), e sfociate nella Sorbonne Université Abu Dhabi, nella business school Insead e in altri partenariati - traduca l’impresa e ne rispecchi la strategica visione: mostrando il cammino dell’umanità sotto una nuova luce. Catalogando le opere non per aree geografiche, e neppure strettamente in ordine cronologico. Ma per temi: evidenziando le interazioni tra le civiltà ed esaltando i tratti comuni a tutti i popoli. Un dialogo continuo tra opere diversissime. Che raccontano la creatività dell’essere umano.
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Come quei vasi ritrovati ad Abu Dhabi ma certamente decorati in Mesopotamia, a conferma di collegamenti commerciali remotissimi. Come quei filosofi che ragionano sul medesimo destino dell’uomo, fianco a fianco: Socrate, Buddha, un oratore romano e il Bodhisattva proteso verso l’illuminazione. Uomini eccezionali, pur vissuti a latitudini diverse. Perché sia chiaro il monito: le cose che ci uniscono sono più di quelle che ci dividono.
Le religioni, per non andare troppo lontano dal nodo che squarcia il presente: Oriente e Occidente trovano un ponte in una sala che ne ricostruisce la nascita. Senza supremazie: una pagina del Corano Blu, bellissimo ritrovamento in Tunisia, è accostato a una Madonna del 1500 proveniente dalla Normandia. Shiva danza a pochi metri. Il tempo, del resto, qui non si misura in a. C, avanti Cristo, e d. C, dopo Cristo, ma in “common era”: l’era comune alla storia dell’uomo. Senza vincitori e vinti, guerre di religione, profeti e divinità privilegiati, luci e ombre. Bianco è il Louvre, immacolato come la Grande Moschea Sheikh Zayed, in marmo di Carrara e dalla Macedonia, 82 cupole, quattro minareti, più di mille colonne che si stagliano a ogni ora del giorno a simboleggiare il culto della pace. E sormontato da un’enorme cupola di acciaio di oltre 180 metri di diametro, poggiata su quattro punti distanti tra di loro oltre cento metri. Simbolica anche quella, ha spiegato Jean Nouvel: «L’impronta araba unificatrice non poteva che essere incarnata da una cupola». Ricoperta da oltre 8000 stelle di metallo capaci di generare una pioggia di luce vibrante, dal potente effetto visivo: rilettura moderna e hi-tech delle cesellature delle cattedrali del passato.
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È sotto quella pioggia di luce, che filtra da piccole, caleidoscopiche fenditure, che si snodano le gallerie del museo, con oltre 600 opere, per metà di proprietà locale, per il resto prestito dell’istituzione parigina, in virtù di un accordo che durerà trent’anni: la “Belle Ferronnière” di Leonardo da Vinci, “Madonna con Bambino” di Giovanni Bellini, “Donna allo specchio” di Tiziano. E poi Van Gogh, Manet, Duchamp, il “Ritratto di William Welby” di Francis Cotes accanto a una stampa di Kitagawa Utamaro. E Basquiat, Pollock, Mondrian, Klein, Picasso. Segnalati da indicazioni multilingue che creano link continui tra tipografie latine e arabe. Immagini nella roccia, arte rupestre da Asir, Arabia Saudita, si specchiano su nove pannelli di blu stordente di Cy Twombly. “La fontana di luce” di Ai Weiwei, utopia di un Soviet e di una torre di babele al tempo stesso, chiude il percorso.

«Nouvel ha capito la cultura e la topografia degli Emirati», ha detto Mohamed Khalifa Al Mubarak, chairman dell’Abu Dhabi Tourism & Culture Authority: «Entrando nel museo vedo una parte della nostra storia, le nostre oasi, i nostri datteri, il legame tra la terra e il mare». «Sono un architetto contestuale: il contesto per me non è solo l’ubicazione, ma la storia e la cultura di un luogo», gli fa eco Nouvel in un entusiasmante documentario, “Louvre Abu Dhabi” di Patrick Ladoucette, sul dietro le quinte del museo: cantiere durato dieci anni, 7800 tonnellate di acciaio impiegate, quasi 5000 operai al lavoro 365 giorni all’anno, 24 ore su 24. Per una struttura che costringe a ripensare le possibilità tecniche di architettura e ingegneria, in un contesto problematico: materiali e soluzioni che sfidano temperature esterne per mesi proibitive; sicurezza ai più alti standard. E un risultato artificialmente naturale: come se il museo fosse poggiato sul mare, integrazione ottenuta costruendo 8 metri sotto il livello dell’acqua, con bacini riempiti, poi rimossi. «Il ruolo dell’architetto è di ricordare che si costruisce sempre su qualcosa. Il suolo non è mai completamente libero, nudo, vuoto», aggiunge Nouvel: «Costruire vuol dire non solo integrarsi con un sito, ma con la profondità della sua storia»: da modesta borgata sul Golfo, poche migliaia di abitanti alle prese con la crisi del mercato della perla, alla città cosmopolita di oggi. Impegnata a crescere: il francese Manuel Rabaté, giovane direttore del museo, ha annunciato così l’acquisizione del “Cristo in preghiera” di Rembrandt: «Rembrandt è stato uno dei più grandi narratori della storia dell’arte. Questo capolavoro si unirà alle opere della collezione, provenienti da culture di tutto il mondo, nell’intento di celebrare la creatività universale dell’umanità». E se l’opera arriva mentre è in corso l’esposizione “Rembrandt, Vermeer & the Dutch Golden Age: Masterpieces from The Leiden Collection and the Musée du Louvre” (fino al 18 maggio), la campagna acquisti non si ferma. Un tabù è solo sapere che fine abbia fatto il “Salvator Mundi” attribuito a Leonardo, battuto all’asta da Christie’s per la cifra straordinaria di 450 milioni di euro: niente da aggiungere alle versioni ufficiali, l’esposizione è uscita d’agenda.

Si intreccia con l’arte del presente l’architettura del Louvre. Un grande albero in bronzo, punteggiato di lame di acciaio come specchi nello spazio, è firmato da Giuseppe Penone. Come il muro di argille provenienti da varie parti del mondo. E l’opera in porcellana con un’impronta digitale al centro, le cui linee si allargano fino a creare un cerchio che cresce all’infinito. «L’impronta dello sceicco Zayed», assicurano le guide. Ma è la tentazione di un minuto: di fronte, il muro di Jenni Holzer, artista concettuale americana nota per i suoi “Truisms”, che negli anni ’70 hanno anticipato le provocazioni da guerriglia marketing, ricordano la volontà di un sincretismo che trascende ogni orgoglio nazionale: incise sulla porcellana convivono scritture cuneiformi mesopotamiche, un testo di Ibn Khaldun, filosofo magrebino-andaluso del 14° secolo, un estratto dei saggi di Montaigne.
«Questo rispetto è un preciso impegno degli Emirati. Puntare sulla cultura non è teoria, ma investimenti concreti», nota Goffredo Puccetti, che insegna Visual Arts alla New York University, campus nato nel 2014 sempre a Saadiyat: sintesi a colpo d’occhio di tradizione e modernità, coi suoi studenti indistintamente in kandura e abaya, gli abiti di qui. O in shorts: «Mohammed bin Zayed Al Nahyan, principe ereditario, lo ha detto chiaramente: “Un giorno vedremo partire l’ultimo carico di petrolio. Quel giorno potrà essere felice o infelicissimo. Sta a noi determinarlo”». Masdaar City, isola ecosostenibile è una delle risposte: energia solare, emissioni zero, senza rifiuti. «Realizzare la New York University è costato 350 milioni di dollari. Il risultato è un campus all’avanguardia, con strutture sportive, residenze per ragazzi e docenti da oltre cento nazionalità. Perché puntare su un’università tra le più progressiste e aperte alle minoranze del mondo? Perché questa è una società che non sfugge al confronto: anzi, lo cerca, senza temerlo».
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«È entusiasmante il clima che si respira», aggiunge Francesco Arneodo, professore di Fisica alle prese con la materia oscura: «Gli italiani in questa università sono una trentina: molto è da costruire, ma c’è un clima positivo, di sfide. Da ultima, la conquista dello spazio: l’impegno è promuovere astronauti donne». Favorite da una legge che ne sostiene la presenza nei posti di lavoro, e da un processo di “emiratizzazione”, controesodo di emiratini dalle più prestigiose università per occupare i posti chiave del Paese, le ragazze conquistano posizioni. Ma «cittadino è solo chi nasce da padre emiratino, la madre non basta», ricorda lo scrittore Deepak Unnikrishnan, autore di “Temporary People” sui “workers”, gli immigrati invisibili dal sud-est asiatico, che stanno letteralmente edificando gli Emirati. «Per diventare imprenditrice basta avere buone idee. Io faccio conoscere la vita domestica», dice Maitha Essa, fondatrice degli Emirati House Experience, tour tematici affidati a guide locali (visitabudhabi.ae). E il fervore è tangibile nel rincorrersi di iniziative: dal Qasr Al Hosn, il fortino che ricostruisce la storia di Abu Dhabi all’Heritage Village, tradizionale villaggio-oasi; dal Founder’s Memorial con l’installazione di forme geometriche che la notte compongono il volto dello sceicco Zayed al Women’s Handicraft Centre. E se l’Abu Dhabi Festival (fino al 30 marzo) conta centinaia di eventi tra musica e teatro, il Culture Summit (7-11 aprile) riunisce Royal Academy of Arts, esperti di Google e della Fondazione Guggenheim per fare il punto sul futuro della cultura. A novembre poi (al 21 al 23), l’appuntamento è con l’arte (abudhabiart.ae). Manarat Al Saadiyat, il centro espositivo sull’isola di sabbia bianca dove le tartarughe nidificano ogni primavera, intanto ha riavviato il countdown verso i due prossimi obiettivi: firmati Norman Foster e Frank Gehry, lo Zayed National Museum e il Guggenheim Abu Dhabi. 

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