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Ottant’anni più tardi, tra le proteste dei nostalgici, il governo socialista di Pedro Sánchez vuole riesumare e spostare quella salma ingombrante seppellita nel 1975 assieme alle sue vittime.
Così anziché dell’unità nazionale, la Valle dei caduti è diventata oggi il simbolo di una profonda frattura che è tornata ad attraversare la politica spagnola. Frattura tra nazionalisti e autonomisti innanzitutto. E poi tra monarchici e repubblicani, tra fascisti e progressisti, tra maschilisti e femministi. Estremismi opposti che, grazie alla vocazione maggioritaria, i due tradizionali partiti dell’epoca post-franchista, i socialisti del Psoe e i popolari del Pp, hanno tentato negli anni di riconciliare, spostandosi gradualmente verso il centro. E che però, complici le inaspettate conseguenze della crisi economica del 2008 - dalla dichiarazione di indipendenza unilaterale della Catalogna alla nascita di nuovi partiti anti-sistema, passando per il caso Gurtel, la “mani pulite” in salsa iberica - negli ultimi tre anni si sono riacutizzati.
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Le prossime elezioni nazionali del 28 aprile vedranno scontrarsi nelle urne il fronte di sinistra di Sánchez, leader del Psoe, e di Pablo Iglesias, fondatore di Podemos, con l’appoggio degli indipendentisti catalani, contro l’inedita coalizione informale delle tre destre: i popolari di Pablo Casado, successore più radicale del moderato Mariano Rajoy, i liberali Ciudadanos di Albert Rivera, nati nel 2005 in Catalogna per opporsi agli impulsi indipendentisti, e i nuovi cattolico-nazionalisti di destra riuniti in Vox dall’ex popolare Santiago Abascal, la cui madre era sindaca ai tempi di Franco. «Non era mai successo che ci fossero cinque partiti con una percentuale di voti compresa tra il 10 e il 30 per cento», dice il sondaggista di Metroscopia Francisco Cama: «Il prossimo parlamento rischia di uscire frammentato come non è mai stato». Frammentato e schierato, con grimaldello della divisione la grande questione della Catalogna e dell’integrità territoriale.
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A contrapporre i due fronti, spinti in coalizioni sconosciute alla storia della Spagna moderna, non è stato tanto il referendum del primo ottobre del 2017, tenutosi tra scontri violenti con la polizia e risultato in una ventina di persone in carcere e l’ex presidente catalano Carles Puigdemont in esilio in Belgio: Psoe, Pp e Ciudadanos furono allora uniti nel respingere le richieste catalane e nel sospendere l’autonomia della regione. L’evento che suggellò la divisione fu invece la mozione di sfiducia per corruzione del 1 giugno 2018 contro il governo di Mariano Rajoy guidata da Sánchez e portata a compimento con i voti non solo di Podemos ma anche dei partiti indipendentisti catalani, con i quali ha continuato a governare per un intero anno, rompendo la promessa iniziale di convocare immediatamente le elezioni. «Sánchez ha rotto il consenso istituzionale, un fatto gravissimo», spiega con enfasi Luis Garicano, celebrato economista spagnolo, anima di Ciudadanos, candidato di testa alle prossime elezioni europee a cui, mormorano i corridoi, non dispiacerebbe occupare la poltrona da Commissario che ora è di Pierre Moscovici. «Il problema della Catalogna è in Catalogna, non in Spagna. Gli indipendentisti non hanno mai avuto un consenso superiore al 48 per cento».
Rivera se l’è legata al dito la mossa di Sánchez. Da allora ha preso a spostarsi a destra: lo scorso dicembre la sua alleanza di governo con popolari e Vox ha scacciato per la prima volta i socialisti dal governo dell’Andalusia, regione povera e storicamente rossa. Oggi, dopo avere escluso ripetutamente una futura coalizione di governo con il Psoe, vorrebbe portare quel formato vincente a Madrid, incurante della contraddizione di un’alleanza tra liberali e gli estremisti di destra di Vox, peraltro fortemente criticata anche dall’alleato francese Emmanuel Macron. «Rivera sta utilizzando il tema catalano per screditare Sánchez, che, a sua volta, punta a dividere la destra, aiutato dall’apparizione di Vox», dice Manuel Arias, professor di politica per l’Università di Malaga: «Parole come fascismo, nazionalismo, tradimento sono tornate al centro del dibattito pubblico».
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Di Europa, di ecologia, perfino di economia, nonostante i tentativi di Casado di mettere in evidenza come, dopo cinque anni di crescita frizzante, quella spagnola si stia raffreddando, si parla poco in questa campagna lampo. Con l’eccezione della discussione sul femminismo in cui è impegnato il Paese, tutto il discorso pubblico è incentrato sull’identità nazionale e sulla figura di Sánchez, l’ambizioso quarantenne che ha aperto un dialogo con gli indipendentisti catalani in cambio del potere. «Ci stanno accusando di tradimento verso il Paese perché abbiamo fatto una coalizione con i partiti indipendentisti ma le accuse non stanno avendo effetto perché sono esagerate», rivendica Domenec Miguel Ruiz, stretto collaboratore del ministro degli Esteri Josep Borrell. Borrell, il duro. Colui che ha interrotto bruscamente un’intervista recente con una televisione tedesca perché il giornalista gli chiedeva conto del comportamento del governo spagnolo verso la Catalogna. «Il suo atteggiamento (aggressivo) ci ha fatto avanzare nei sondaggi», rivendica Ruiz: «A differenza della destra, abbiamo aperto un tavolo di dialogo con gli indipendentisti per disinnescare la situazione ma solo nei limiti costituzionali. L’indipendenza della Catalogna è impensabile così come la liberazione di chi ha fatto il golpe. Su di loro deciderà il tribunale».
Al momento il partito socialista è favorito nei sondaggi: avrebbe 122 dei 350 seggi del parlamento rispetto agli 88 dei popolari. Ma per governare ne servono 176: una maggioranza che non riuscirebbe ad ottenere solo con i voti di Podemos, in calo di popolarità dopo la svolta a sinistra di Sánchez, l’entrata nel governo che ne ridimensiona la portata antagonista e lo scandalo dell’acquisto di una lussuosa villa di campagna giudicata fuori luogo per un (ex) rivoluzionario di estrema sinistra. Gli indipendentisti restano cruciali per assicurare una maggioranza al governo di sinistra. Dall’altra parte la situazione non è migliore: nemmeno unite le tre destre riuscirebbero ad ottenere la maggioranza dei seggi. Il Paese è di fatto spaccato a metà, con la consapevolezza che l’epoca del partito unico di governo è finita. Risultato? Il centro è rimasto territorio di nessuno. «Non ci può essere una posizione identitaria che sia una via di mezzo», sottolinea Arias: «Siamo al “noi contro loro”».
Per i socialisti che durante l’anno di governo si erano spostati a sinistra - approvando un salario minimo di 900 euro rispetto ai 763 precedenti e aumentando le settimane di congedo paterno obbligatorio a otto nel 2019 per poi equipararle alle 16 materne in tre anni - la campagna elettorale è l’occasione per tentare un allungo verso il centro. Da Felipe González a Jose Luis Rodríguez Zapatero, quando ci sono riusciti hanno vinto. Tanto più che adesso, per la prima volta, il sistema elettorale rischia di penalizzare la destra perché tricefala: se un partito in una circoscrizione non raggiunge una certa soglia di preferenze, come accade nelle ampie ma spopolate zone rurali, deve cedere i suoi voti al partito di maggioranza. «Ciudadanos e il Pp stanno aiutando la nostra campagna», esultano fonti vicine alla Moncloa: «La coalizione con l’estrema destra è assurda. Ma come diceva Napoleone, “quando un nemico sbaglia non lo distrarre!”. Il nuovo leader del Pp per recuperare credibilità si sta estremizzando a destra ma la verità è che Rajoy non ha perso il potere perché era moderato ma perché era corrotto».
Che l’esplosione di Vox sia nata dal disgusto per la corruzione non lo dicono sono i politici. Beatriz Luque, 33 anni, un’esplosione di capelli scuri su un fisico snello, è un’agente immobiliare di Cordoba che nel week end per svagarsi sbarca nella città cosmopolita, variegata e frenetica in cui, a dieci anni della crisi, si è trasformata Madrid. Come molti suoi amici Luque non ha problemi a dire di aver contribuito al successo di Vox in Andalusia. «Ho sempre votato per i Popolari ma adesso è tempo che salti un giro, che paghi per la sua corruzione. È il momento di forze nuove e Vox rispecchia in pieno tutto ciò in cui credo». L’elenco segue come un fiume in piena: «Sono a favore del possesso di armi per autodifesa e dell’eliminazione delle associazioni femministe che non hanno nessuna utilità. Anziché inventarsi nuove leggi sul femminicidio dovrebbero inasprire le pene esistenti contro ogni tipo di omicidio. E non voglio un’uguaglianza contro natura, l’uomo non può allattare».
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E poi ancora, come se scorresse il programma di Vox, dice di essere contraria all’aborto ma non al divorzio, agli immigrati, allo spostamento della salma di Franco. Chiede un’applicazione «fino alla morte» dell’articolo 155 che sospenda l’autonomia della Catalogna e rivendica la differenza tra la ricca Madrid, governata dalla destra, e la povera Andalusia, governata per quarant’anni dalla sinistra. Infine si dice «non contraria» alle crudeli tradizioni folcloristiche che parevano scomparse e che invece Vox è tornata a sostenere: la caccia e le corride.
Il risultato del 28 aprile non è dunque scontato. E potrebbe riservare sorprese. I socialisti hanno più volte chiesto a Ciudadanos di ripensarci e, se i voti lo permetteranno, di entrare con loro al governo ed evitare che si alleino con gli indipendentisti. Sia gli analisti politici sia i think-tank economici come Fedea sostengono l’ipotesi perché «l’unica nell’interesse del Paese». Con le dovute differenze, i valori in comune ci sono: dalla promozione delle donne, al sostegno alle famiglie per aumentare la natalità, ad un’ulteriore riforma del mercato del lavoro che annulli il gap tra lavoratori permanenti e temporanei, fino ad una rimodulazione minima delle pensioni che salvaguardi i più deboli.
Ma i fendenti di questi giorni sono profondi e i compromessi acquistano un sapore amaro. Il futuro della Spagna è in bilico su un presente incerto. Come quello dell’Europa.