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Il pericolo per il clima viene dal Grande Nord

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Inquinamento. Ghiacci che si sciolgono. E balene con lo stomaco pieno di plastica. Il degrado ambientale nell’artico si fa sentire più che altrove. Ma le conseguenze sono globali

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Più che l’orso bianco poté la balena. Soprattutto ora che le balene uccise dall’inquinamento sono arrivate anche a Porto Cervo. Le immagini dei bianchi giganti pelosi smagriti dalla mancanza di cibo fanno impressione, sì, ma l’effetto dura poco: sono troppo esotici perché i lettori che vivono lontano dai ghiacci possano ricordarsi a lungo dei danni provocati dalla scarsità di cibo dovuta ai cambiamenti climatici. Quando però a testimoniare le conseguenze dell’inquinamento sono arrivate le balene con la pancia intasata da chili di plastica, lo shock è stato più duraturo.

Le ultime immagini che hanno fatto il giro del mondo sono quelle del capodoglio spiaggiato in Sardegna: una femmina incinta che aveva nella pancia un cucciolo lungo più di due metri e nello stomaco 22 chili di rifiuti. Ma dalla Norvegia all’Indonesia, dalla Spagna alla Thailandia, gli ultimi mesi sono stati un continuo allarme su mari e fiumi pieni di detriti. E sugli effetti letali per gli animali che in quelle acque ci vivono. Una morìa che ha toccato tutto il mondo. E ha spinto molti governi ancora scettici o pigri a darsi davvero da fare contro l’inquinamento. Come ha detto il ministro degli Esteri norvegese Ine Eriksen Søreide, «noi che abitiamo vicino all’Artico sentiamo di più il tema dei danni prodotti dall’inquinamento perché qui i cambiamenti climatici hanno una velocità doppia rispetto al resto del mondo. Ma le balene con la pancia piena di sacchetti di plastica sono riuscite a coinvolgere nella discussione sull’inquinamento anche paesi lontani».

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Greta, un cartello e l'effetto farfalla
17/4/2019
È grazie a Greta Thunberg che l’opinione pubblica e i governi stanno finalmente riuscendo a vedere la Terra come un insieme di vasi comunicanti. Ogni forma di inquinamento è legata alle altre, ma soprattutto quello che succede in una regione, per quanto lontana, riguarda tutti. E questo è tanto più vero quando si pensa all’Artico. I dati degli ultimi anni sono impressionanti. La temperatura media delle terre comprese nel Circolo Polare Artico è aumentata di sei gradi tra il 2010 e il 2016, lo spessore dei ghiacci è diminuito del 65 per cento in trent’anni e dal Duemila a oggi la quantità di terreni coperti di neve è dimezzata rispetto alla fine del secolo scorso.

Non è un caso che il movimento ecologista senza precedenti degli ultimi mesi sia partito proprio dalla Svezia. E proprio nel 2018. Lo sciopero scolastico per il clima Greta lo ha organizzato alla fine di un agosto molto particolare. Quella dell’anno scorso è stata in Scandinavia l’estate più calda da quando, 262 anni fa, sono iniziate rilevazioni della temperatura. Non se ne sono accorti solo la gente e i termometri: gli incendi hanno distrutto migliaia di ettari di boschi, liberando nell’aria una quantità abnorme di anidride carbonica e modificando per sempre il paesaggio. I cambiamenti del clima nelle zone vicine ai Poli hanno conseguenze che toccano anche i paesi più caldi: l’aumento delle temperature provoca lo scioglimento dei ghiacci e quindi alza il livello del mare, le grandi quantità di metano liberate dal permafrost che si scalda moltiplicano l’effetto serra e favoriscono siccità e tifoni nel resto del mondo...

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La battaglia di Greta si propone un fine preciso: ottenere dai governi il rispetto delle risoluzioni approvate nel dicembre del 2015 a Parigi. In quell’occasione, alla fine di una Conferenza sul clima particolarmente sentita, tutti i paesi dell’Onu si erano impegnati a ridurre drasticamente le emissioni di anidride carbonica entro il 2030 per riuscire a rallentare l’aumento della temperatura. Sulla carta era un impegno importante, ma ci sono due grossi problemi: alcuni paesi si stanno tirando indietro (a partire dagli Usa, che sono il maggior produttore di Co2 al mondo); e chi ha firmato non sta facendo granché. Anche perché nessun governo vuole fare la fine di Macron, che a prendere provvedimenti “verdi” ci ha provato e si è ritrovato con i gilet gialli in rivolta sugli Champs Elysées.

Concentrarsi sulle emissioni di gas comunque non basta: tutte le forme di inquinamento vanno affrontate insieme, se vogliamo uscire dalla crisi. In fondo, è l’obiezione che hanno fatto i “cattivisti” ai manifestanti del 15 marzo: protestano contro l’inquinamento ma poi usano le bottiglie di plastica… È in questa ottica globale che ogni anno in Norvegia la conferenza Arctic Frontiers parte da un focus sulle emergenze della regione per allargarsi a ogni forma di inquinamento in tutto il mondo. L’appuntamento è a Tromsø, la “Parigi del Nord” dove ha sede l’Arctic Council, l’assemblea permanente dei rappresentanti degli otto Stati che hanno territori nel Circolo Polare Artico: un organismo nato nel 1996 che si concentra su temi legati allo sviluppo sostenibile e alla protezione dell’ambiente.

Arctic Frontiers, che quest’anno ha riunito tremila partecipanti da 33 nazioni, è una vetrina sulle emergenze sempre nuove dell’inquinamento. La novità dell’ultima edizione è l’estrazione dei minerali dal fondo marino incontaminato dei mari artici. Che secondo i primi carotaggi contiene non solo oro, argento e, almeno in Groenlandia, uranio, ma anche rame e terre rare. Queste ultime, indispensabili per la costruzione di cellulari e altri gadget elettronici, oggi vengono da paesi africani dove sono estratte in condizioni non solo ecologicamente ma anche eticamente inaccettabili.

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17/4/2019
Presto potrebbero arrivare invece dal fondale dei mari artici: ma a quale costo per l’ecosistema? «Stiamo facendo studi preparatori con grande attenzione», ha rassicurato Ingrid Schjølberg, direttore del reparto di oceanografia della Norwegian University for Science and Technology. «Dobbiamo capire come estrarre i minerali e dove lavorarli, se sott’acqua o sulla terraferma. L’ecosistema dei fondali marini artici è molto fragile, e anche se non pensiamo certo di affrontarlo con mostri che masticano rocce, sappiamo che ogni eventuale attività avrebbe un impatto su piante e animali. Se decideremo di sfruttare quei giacimenti saremo in grado di farlo solo tra diversi anni. Però le competenze necessarie dobbiamo cominciare a costruirle adesso: non possiamo aspettare di sapere quale sarà la decisione che verrà presa a riguardo».

L’altra nuova frontiera dell’inquinamento nell’Artico è legata all’aumento del traffico navale: che è sempre più intenso, quindi più inquinante e potenzialmente pericoloso. Lo scioglimento dei ghiacci ha aperto sempre nuovi spazi a navi commerciali e da crociera sempre più grandi. È di due anni fa il primo carico di pesce trasportato dalla Norvegia al Giappone attraverso il “passaggio a Nordest” aperto dallo scioglimento dei ghiacci. Una novità che ha destato un’attenzione particolare da parte della Cina, che vedrebbe diminuire i tempi di trasporto di tutte le sue merci verso i mercati europei. Ma che apre un circolo vizioso: se gas e particelle di smog portate dalle correnti marine e dal vento già fanno danni tra i ghiacci dell’Artico, figuriamoci quanti danni farà l’aumento degli scarichi che inquineranno “in loco”.

Frederik Hauge, capo del combattivo gruppo ambientalista Bellona, a Tromsø ha fatto una rassegna del “menu dei combustibili” di motori navali con cui le coste dell’Artico dovranno fare i conti in un futuro prossimo: «Gas, biocarburante, idrogeno, ammoniaca, solare ed eolica, ma anche nucleare. Il meglio sarebbe l’energia elettrica, anche perché i crocieristi preferiscono avere una nave che non fa fumo né rumore. Ma nessun carburante potrà coprire da solo le necessità dell’aumento del traffico. E ognuno di essi ha aspetti positivi e controindicazioni». Tutto questo, sperando che si riesca a mettere al bando dall’Artico il bunker fuel, la nafta meno raffinata, la più comune e inquinante dei combustibili per le navi da carico. Finché la zona libera dai ghiacci sarà all’interno delle acque territoriali, si può sperare che tutti gli Stati interessati si accordino per richiedere alle navi di usare i combustibili meno inquinanti.

Oltre ai danni provocati dagli scarichi dei motori, il rischio di tutte queste navi nelle pericolose acque artiche è quello della dispersione di carburante dovuta a incidenti: naufragi di petroliere, perdite di oleodotti. È questo uno dei settori in cui la collaborazione tra gli otto paesi dell’Arctic Council è più costruttiva. Grazie a un accordo vincolante, da qualche anno le squadre di intervento di ogni Stato sono autorizzate a sconfinare se è necessario per minimizzare i danni di una perdita di carburante.

Un altro settore in cui si è raggiunto un accordo è quello del soccorso, un aspetto che diventa sempre più importante man mano che il turismo aumenta, attirato dal sole di mezzanotte e dalle estati miti del clima impazzito, ma anche dal successo crescente dell’aurora boreale che illumina le notti artiche e che ha fatto moltiplicare i visitatori invernali. «Da noi a Kirkenes fino a qualche anno fa gli hotel in inverno erano chiusi, ora sono così pieni che a Natale scorso un gruppo di cinesi che aveva sbagliato a prenotare li ho dovuti ospitare in casa io», lamentava Rune Sør-Varanger, sindaco di una frazione della città sul confine tra Norvegia e Russia.

Quanto possa essere rischioso mandare una grande nave piena di turisti nei mari del nord si è visto di recente, quando1300 persone sono rimaste bloccate da un guasto in una delle zone più tempestose della costa norvegese. Perché quando ci si avvicina ai Poli, tutto diventa più pericoloso. Come ha detto il canadese Michael Byers, che insegna Politica globale all’University of British Columbia: «La Costa Crociere è riuscita a naufragare nel Mediterraneo, che è il mare più tranquillo del mondo. Se fosse successo da noi solo per far arrivare soccorsi ci sarebbero volute ventiquattr’ore».

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