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La conversazione sul presente e futuro della nostra Europa e su “Che fare?” per resistere alla ondata di populismo e sovranismo, non può che cominciare da una brevissima considerazione sui risultati delle elezioni politiche spagnole: «È stato previsto un successo di Vox (il partito di destra radicale, ndr). C’era il panico. Penso che Vox sia risultato di un timore che l’aspirazione separatista di una parte notevole della popolazione catalana possa portare alla frattura della nazione spagnola. Ma poi, la Spagna ha scelto la socialdemocrazia che ha governato a lungo la nostra democrazia e che garantisce politiche sociali gradite alla stragrande maggioranza degli elettori».
Aramburu, l’epoca in cui viviamo è un’epoca di ossessione identitaria. Quali sono le cause? Solo la crisi economica o c’è dietro una crisi di cultura?
«Il senso di appartenenza è nei geni dell’essere umano ed è una pulsione che condividiamo con molte specie animali. Ci definiamo non soltanto di fronte alla nostra immagine personale nello specchio, ma anche in rapporto alla nostra collettività: alla tribù, alla comunità di credenti, a coloro che parlano la stessa lingua e, più o meno a partire dalla Rivoluzione Francese e dall’indipendenza delle prime colonie d’America, a coloro che si uniscono sotto una stessa bandiera. Dopo anni in cui le differenti nazioni cedevano sovranità a un’entità superiore, nel nostro caso l’Unione europea, il rapporto dei cittadini con il loro Paese, inteso come fonte d’identità, è diventato problematico. Il grande timore è la perdita di qualcosa che potrei chiamare la sostanza nazionale dei Paesi. Di qui, per esempio, la paura che ci invadano orde di stranieri, che trionfi l’Islam nelle nostre strade, l’equiparazione dell’immigrante con il ladro, ma anche la paura della globalizzazione, che si suppone privi le nazioni della loro particolarità. Esempio di questi timori è la Brexit, l’idea di mettersi in salvo isolandosi. Altre misure sono la chiusura delle frontiere, l’innalzamento di muri o l’imposizione di controlli ai cittadini. In tutta l’Europa si risentono i discorsi demagogici che fanno appello al patriottismo dei cittadini. In molte menti si è riattivato il mito di una fortezza assediata».
Quello che chiamiamo “identitarismo” è una visione del mondo pessimista. I suoi artefici si presentano come rivoluzionari, contro le élite cosmopolite, ma sono reazionari perché la loro utopia non è rivolta verso il futuro, ma verso il passato: sognano una società immobile, governata da maschi padroni. Zygmunt Bauman parlava di “retrotopia“, utopia rivolta all’indietro.
«Non vedo niente di nuovo nei comportamenti collettivi attuali. L’essere umano è una specie fondamentalmente gregaria. Ha bisogno che gli si inducano delle credenze. E ciò lo rende facilmente manipolabile. Gli costa fatica esercitare la libertà perché questo lo costringerebbe a studiare, a informarsi, a essere attento a ciò che accade, a pensare e a prendere decisioni, e invece desidera la tranquillità e il piacere. Così, delega il proprio voto a chi sembra risolvergli i problemi della vita, e adesso, in quasi tutta l’Europa, hanno successo coloro che hanno capito di potersi impadronire del potere dicendo alle persone che la loro identità è in pericolo e che bisogna ripulire il Paese da elementi umani impuri. La storia europea dimostra che questo tipo di tendenze finisce per legittimare la violenza collettiva».
Una generazione di europei antifascisti ha tifato per il Barcellona e contro il Real Madrid. Era un tifo non tanto calcistico quanto in difesa dei diritti del popolo catalano Oggi, a molti gli indipendentisti catalani appunto e anche i militanti baschi sembrano nazionalisti. Cosa è successo?
«I nazionalismi basco e catalano hanno ottenuto un grande successo propagandistico in Europa. Si presentano come vittime e in molti ci hanno creduto. All’interno, questo ruolo di perseguitati che essi stessi si assegnano permette loro di promulgare leggi di chiaro segno razzista facendole passare per atti di autodifesa. La verità è che governano in Catalogna e nei Paesi Baschi, comunità autonome e benestanti, con governi e polizia propri. Per un nazionalista basco o catalano, un fascista è un cittadino che non è un adepto del nazionalismo, per quanto liberale o socialdemocratico possa essere. La parola fascista, in questo caso, vale come insulto e libera chi la usa dalla possibilità che venga utilizzata contro di lui».
E allora come dare alla parola patria un senso che vada oltre il nazionalismo? Dobbiamo regalare questa parola agli identitaristi?
«È naturale, è bello ed è molto umano amare ciò che si considera proprio: la propria cultura, la gastronomia, la musica con cui ci identifichiamo, la nostra lingua materna, la squadra di calcio della nostra città. Questo esercizio sentimentale si chiama patriottismo. Tuttavia, tutti questi affetti possono essere condivisi e non ci impediscono di stare insieme pacificamente, ciascuno con le proprie caratteristiche particolari. Non appena pretendiamo di imporre i nostri sentimenti agli altri e vogliamo che tutti siano come noi, cadiamo nel nazionalismo».
Sta dicendo che possiamo essere pacificamente patrioti. Ma come spiegare che non basta una piccola patria, ne occorre una grande, per esempio l’Europa?
«Il mondo si è rimpicciolito. Io vivo in Germania. Posso prendere di primo mattino un aereo ed essere all’ora di pranzo a Lisbona o a Palermo. Pago in euro in Italia, in Spagna, in Austria e in altri Paesi. Vado da una nazione all’altra senza controlli alle frontiere. Mia moglie è tedesca, io spagnolo. Siamo sinceri: dove sono i limiti? È come cercare di imporre frontiere al mare».
I nazionalisti hanno una loro mitologia, Blut und Boden, sangue e terra. È possibile creare una mitologia alternativa alla loro narrazione? O noi internazionalisti siamo condannati a un racconto e razionalista e poco emotivo?
«Basta osservare che anche i nazionalisti europei si raggruppano fra loro per rendersi conto che il mito ancestrale della purezza ha poco futuro. Io non sono un profeta, ma ciò che vedo all’orizzonte è l’avanzamento inarrestabile della Cina. I cinesi sono i nuovi barbari che stanno già arrivando in Europa mentre i nativi, insediati nella società del benessere, grassi e pigri, passano il tempo invischiati in dispute regionali».
La letteratura è un esercizio di empatia. Può quindi riscaldare i cuori, essere un fattore di salvezza?
«Dubito che la letteratura abbia effetti medicinali. Come fatto culturale, sì, credo che aiuti a elevare la qualità delle persone. L’empatia, invece, mi sembra importante per il romanziere. Il suo lavoro dipende in grande misura dalla sua conoscenza dell’animo umano. Questo lo obbliga a essere un osservatore costante dei comportamenti altrui, il che alla fine lo aiuterà a creare personaggi complessi, interessanti, umani, che non assomiglino a lui».
Nei suoi racconti la peggiore forma di violenza è contro i vicini di casa. È così anche nella vita. La violenza ha solo motivazioni politiche, o spesso come violenza intima è il Male senza altro scopo che perpetrare il Male?
«La violenza è una risorsa che la natura stessa mette a nostra disposizione. Ora, si suppone che la storia dell’umanità sia una lunga marcia dell’uomo selvaggio delle caverne verso forme più elevate di civilizzazione. Accettiamo certe regole per non ucciderci a vicenda, deleghiamo allo Stato il monopolio della violenza e ai giudici la facoltà di discernere chi è stato danneggiato e chi merita una punizione. Senza questo principio non c’è democrazia. La democrazia, quindi, non è un sistema naturale, dato che nega la ragione del più forte. Ciò non vuol dire che la violenza sia scomparsa dalle nostre vite e che non sia utile. Lo è perché può concedere dei vantaggi, permette di imporsi sugli altri, dà potere, assicura la vendetta. C’è chi afferma che in passato c’erano più violenza e più guerre. Può darsi, ma non va dimenticato che, con il tipo di armi esistenti oggi, le guerre non si fanno più con battaglie in campo aperto e non durano trent’anni».
Per i sostenitori dell’identitarismo, il tradimento è un peccato mortale. Lei ne parla nei suoi testi. Ma senza tradire non è possibile cambiare né se stessi né il mondo, lo diceva, nel romanzo “Giuda”, un libro in cui si congeda dal mondo, un suo grande collega, Amos Oz. Dove è il limite del tradimento da non oltrepassare?
«La parola tradimento si trascina dietro una cattiva fama. È anche vero che alcuni fanatici definiscono tradimento ciò che è cambiamento o evoluzione. Questi cambiamenti, se alla fine vengono accettati, conducono a una nuova ortodossia che i fanatici del momento cercheranno di difendere a ogni costo, chiamando traditori coloro che osano metterla in discussione. Di questo ha già parlato Hegel. La storia non si ferma, ogni generazione vuole lasciare la propria impronta, il tempo impone le sue rovine e alla fine trionfa l’oblio. Nel frattempo, godiamocela».
Nei suoi racconti i preti sono spesso collusi con l’Eta e con i terroristi. Già Dostoevskij si è posto il problema se il riscatto del mondo valga la vita di un bambino. Lei come la pensa?
«Prima che nella mia letteratura, nella vita reale un gran numero di sacerdoti si è schierato con l’Eta e con il terrorismo. Su questo non ho inventato nulla. L’affermazione di Dostoevskij è un nobile atteggiamento morale. Non ha conseguenze pratiche. Va bene per emozionarsi un istante. La considero inesatta dato che oppone un bambino a un possibile riscatto che potrebbe salvare la vita di milioni di bambini. Ha, sì, senso per coloro che compatiscono le vittime o le antepongono ai princìpi astratti. Da questo punto di vista, posso accettarla. L’Eta ha assassinato 23 minorenni. Metto a disposizione questo dato nel caso che qualcuno, che non ha letto Dostoevskij, continui a provare simpatia per quell’organizzazione terroristica».
La memoria spesso è strumentale per sentirsi vittima e rivendicare il diritto di odiare e uccidere. Dall’altro lato c’è chi la memoria la vuole sopprimere. Lei come vede il futuro della memoria, specie in un Paese come la Spagna, dove la memoria della guerra civile è ancora fondamentale?
«Ogni memoria contiene un racconto, una versione di quanto è accaduto. In Spagna, ascoltiamo ciò che dicono gli uni e gli altri sulla Guerra Civile e spesso non ci sembra che parlino dello stesso avvenimento. Affinché la memoria esista, bisogna riempirla di contenuto. Detto in altro modo, bisogna comporre le testimonianze e questo, già di per sé, presuppone una riduzione della verità, dato che le testimonianze non equivalgono al cento per cento ai fatti narrati. Le testimonianze sono immagini, testi, tracce. In una parola, rappresentazioni che spesso si contraddicono a vicenda e che sono sempre un riassunto. Dal punto di vista intellettuale, questa lotta delle versioni differenti e opposte è molto interessante. Conviene, quello sì, vincerla se non vogliamo che le nostre convinzioni vengano messe da parte o giochino un brutto ruolo nella storia».
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Che fare? Come resistere all’ondata di populismi e nazionalismi e difendere l’Europa?
Wlodek Goldkorn o domanda a intellettuali, artisti, personaggi della cultura a confronto con i concetti di identità, straniero, difesa della democrazia. Il dialogo con Aramburu prosegue a Pistoia, in occasione del Festival di antropologia del contemporaneo “Pistoia – Dialoghi sull’uomo” (appuntamento per il 25 maggio, ore 16,30). L’ultimo libro dello scrittore, la raccolta di racconti “Dopo le fiamme”, è in uscita per Guanda (trad. E. Tramontin).