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Attraversare a piedi Torino, nove chilometri da corso Giulio Cesare all’ex villaggio olimpico passando per il parco del Valentino, rivela molto più di qualsiasi promessa elettorale. Nella luce del giorno la città mostra ovunque sguardi rassicuranti. Come le saracinesche ancora alzate della libreria Orsa Maggiore di Angelo Pennè, 74 anni e due vetrine affacciate sul mondo multicolore del quartiere Aurora. Oppure le lezioni sempre piene di allievi alla scuola guida Rubatto, perché nella ex capitale dell’auto la patente è il primo vero titolo di studio che integra ragazzi stranieri e coetanei piemontesi, a loro volta eredità migratoria di genitori campani, pugliesi, calabresi e siciliani. Almeno al volante, si sta tutti seduti allo stesso modo.
Poi però l’ora del tramonto smaschera le illusioni. Non appena fa sera scopri che un anno di Lega e Movimento 5 Stelle al governo non hanno cambiato nulla. Gli spacciatori dei Giardini Alimonda, grande tema torinese prima del voto del 4 marzo 2018, li hanno solo spostati di ottocento metri. I proprietari di case, speculatori italianissimi, continuano a spolpare gli inquilini ammassandone a decine in pochi metri quadri, con o senza permesso di soggiorno. Mentre gli immigrati irregolari, piccoli gruppi tra i cinquecentomila artificiosamente denunciati in tutta Italia dalla maggioranza gialloverde, si ritrovano sempre agli stessi, identici angoli.
«Pertanto, una seria ed efficace politica dei rimpatri risulta indifferibile e prioritaria», sottoscrivevano dodici mesi fa Luigi Di Maio e Matteo Salvini a pagina 27 del famoso contratto del cambiamento. Evidentemente non sono stati né seri né efficaci: anche perché senza spacciatori africani, appartamenti dormitorio o bivacchi in strada, cosa resterebbe della loro campagna elettorale permanente?
Domenica 26 maggio in Piemonte si vota per il rinnovo del consiglio e del governo regionale, oltre che per il Parlamento europeo. La destra si presenta con la vecchia formula berlusconiana. Candidato alla presidenza è Alberto Cirio, 47 anni, laureato in Giurisprudenza, politico in carriera di Forza Italia sostenuto da Lega, Fratelli d’Italia e Udc: è stato europarlamentare dal 2014 a oggi e prima assessore regionale a Istruzione, Sport e Turismo nella giunta del leghista Roberto Cota, da cui ha ricavato un avviso di garanzia e poi l’archiviazione nell’inchiesta sui rimborsi pubblici incassati per pagare spese private. Cota, primo e finora ultimo presidente della Lega, si era dovuto dimettere e dieci mesi fa è stato condannato dalla Corte d’Appello di Torino a un anno e sette mesi per peculato, insieme con altri ventiquattro esponenti della maggioranza di allora. Perché la sentenza diventi definitiva, manca adesso l’esame dei ricorsi in Cassazione.
Il Movimento 5 Stelle punta su Giorgio Bertola, 49 anni, diploma di maturità scientifica, consigliere in Regione dal 2014 e prima assistente del deputato regionale Davide Bono. Il Partito democratico ricandida invece l’attuale presidente del Piemonte, Sergio Chiamparino, con l’appoggio di sei liste tra cui +Europa Sì Tav, Liberi uguali verdi e Italia in Comune. Chiamparino, 71 anni, laurea in Scienze politiche, è stato anche sindaco di Torino per due mandati dal 2001 al 2011. Quarto candidato a guidare la Regione è Valter Boero, 65 anni: professore associato di Chimica agraria all’Università e presidente del Movimento per la vita, si candida per il Popolo della famiglia.
FACEBOOK E CRONACA NERA
Inutile chiedere in giro quale sia il programma elettorale preferito. Nessuno li ha letti. Basta quello che si sa da Facebook, dalla cronaca nera, o direttamente dalla strada, con gli schiamazzi che a ogni ora del giorno e soprattutto della notte ti entrano direttamente in casa nonostante le finestre chiuse. Il risultato alle regionali, ma anche alle europee, lo deciderà il voto nei paesi e nei quartieri popolari come Aurora, Barriera di Milano o, alla periferia opposta, Borgo Filadelfia, l’ex villaggio olimpico e Lingotto. È la geografia del nuovo sottoproletariato che negli ultimi anni, come altrove, ha spiattellato intorno allo stesso destino piemontesi con diritto di voto, stranieri con permesso di soggiorno ma senza diritti politici e, ancora più giù, i richiedenti asilo veri, quelli finti, quelli respinti dalla vicina frontiera francese e i diseredati per colpa della disoccupazione o del decreto sicurezza.
Lo scorso inverno la Regione Piemonte è la prima a ricorrere alla Corte costituzionale contro la norma voluta dal ministro dell’Interno, Matteo Salvini. «Il decreto, impedendo il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi umanitari, avrà ripercussioni sui servizi sanitari e assistenziali che sono di nostra competenza e che la Regione ha finora erogato ai migranti interessati», spiega in quei giorni in tv il presidente Chiamparino: «Sono evidenti le conseguenze gravi che il decreto avrà sul territorio regionale, creando di colpo una massa di invisibili di cui in ogni caso la Regione e i Comuni dovranno comunque occuparsi».
La Corte Costituzionale esaminerà il ricorso il 19 giugno. Nel frattempo il ministro Salvini può contare su testimonial che a sua insaputa non hanno mai smesso di fargli campagna elettorale gratis. Lo spin doctor del momento si chiama Gueldje Koulibaly, ha 30 anni ed è sbarcato dalla Guinea. Da domenica 24 marzo è in carcere per violenza sessuale. Quella notte, come raccontano i quotidiani, vicino alla discoteca Life nel parco del Valentino, ha sorpreso una coppia di adolescenti che si era appartata per darsi qualche bacio, ha minacciato il ragazzo con il collo di una bottiglia rotta e aggredito la fidanzata, una ragazzina che stava festeggiando i suoi 18 anni. L’ha trascinata al buio, l’ha buttata a terra, le ha strappato i vestiti e il reggiseno e con i cocci di vetro le ha tagliato l’orecchio.
Koulibaly è la prova che Salvini non sta rimpatriando nemmeno i pregiudicati. Quando la polizia lo arresta subito dopo, grazie ai servizi di vigilanza nel parco potenziati dal questore, scoprono che l’aggressore è ricercato per un decreto di espulsione, ha precedenti per violenza, resistenza a pubblico ufficiale e per aver lanciato una molotov contro la stessa discoteca. Gueldje Koulibaly ha abitato nelle palazzine occupate dell’ex villaggio olimpico in via Giordano Bruno, di cui due sono state da poco svuotate e murate. Ma non avendo ottenuto lo status di rifugiato, non ha potuto beneficiare del progetto di inclusione che sta impegnando Comune, Regione, Prefettura, Diocesi e istituzioni private come la Compagnia di San Paolo e Medici senza frontiere. Basta un grave fatto di cronaca per rovesciare anni di delicato equilibrio.
Gli altri testimonial quotidiani della Lega sono gli spacciatori. Fino all’anno scorso riempivano le panchine dei Giardini Alimonda. Entrato Salvini al ministero dell’Interno, sono stati effettivamente espulsi. Però solo dall’isolato. E adesso rieccoli qui, ad appena ottocento metri, nel quadrilatero intorno a largo Giulio Cesare, cuore popolare del quartiere Barriera di Milano.
Alle sei di sera il presidio del territorio è totale: cinque vedette se ne stanno sedute sulle panche al centro della piazzetta, altre restano in piedi agli incroci e davanti ai portoni. Una ogni cinquanta metri. Ci passi in mezzo e loro fischiano come marmotte. È l’allarme per i complici in bicicletta che negli zainetti in spalla custodiscono le dosi di eroina, la cocaina o i pezzi di hashish.
SVILUPPO MANCATO
Dal Pigneto di Roma al Kreuzberg di Berlino, sono gli stessi movimenti di una generazione di nuovi criminali che soddisfano la richiesta locale di droghe. Ma un’area metropolitana di quasi un milione di abitanti come Torino, amputata del collegamento ferroviario ad alta velocità con la Francia, ancora in mezzo al guado tra il suo passato industriale e il mancato sviluppo del terziario come denuncia l’ultimo rapporto del Centro Luigi Einaudi, può rassegnarsi e costruire il proprio futuro politico su singoli fatti di cronaca?
La proprietaria di un piccolo bar a metà di corso Palermo, lei marchigiana, il marito pugliese, dice che la risposta se l’è data nel 2013: «È l’ultima volta che ho votato Partito democratico. Un tempo votavo Pci. Poi ho cominciato a scarabocchiare la scheda per invalidarla. L’anno scorso mi sono convinta. Voto lui». E lo nomina sottovoce. Scusi, non ho sentito. «Salvini», ripete lei e per paura chiede che sia garantito l’anonimato: «Bisogna vivere qui per capire. Sopra di me un inquilino ha subaffittato ad altri quattro e ci svegliano in piena notte. Fuori di casa ha visto anche lei come hanno ridotto il quartiere gli spacciatori. Questo locale valeva duecentomila euro. Se lo vendessi oggi, me ne darebbero non più di cinquanta, sessantamila. Andrei via subito. Ma non possiamo permettercelo. Quindi voto lui e provo a vedere cosa succede».
RESISTENZA IN LIBRERIA
Superato corso Novara, dalla Barriera di Milano si entra all’Aurora. È il quartiere di Gipo Farassino, il cantautore torinese scomparso nel 2013, che trent’anni prima della barista di corso Palermo aveva inventato lo stesso percorso: dal Partito comunista alla Lega. Angelo Pennè sta navigando al computer tra gli scaffali del negozio che uno zio e la sua mamma avellinese, dopo qualche anno da emigrante in Venezuela, decisero di aprire nel 1959. Una libreria indipendente nel quartiere operaio: oggi è la più antica di Torino. Le altre hanno chiuso. «Mi chieda pure», dice lui, «tanto dopo il Salone del libro a noi librai non resta nulla da fare». Passa un cinese che cerca biglietti del tram e sbaglia la pronuncia. «Mi spiace, non tengo biletti», scherza lui. «Qui come libreria non ho solo il problema del calo della vendita di libri in Italia», aggiunge poi, «ma anche la scomparsa degli italiani dal quartiere. Si vive con la scolastica. Leggono un po’ le donne africane e, grazie ai loro genitori, cominciano a leggere i ragazzini romeni. La questione però non è l’immigrazione. Abbiamo sempre convissuto all’Aurora. Il problema del quartiere è la delinquenza, che si confonde con l’origine straniera dei delinquenti».
Quindi anche lei voterà Lega? «No, Salvini no, Pd no, 5 Stelle no. Io sono nei guai perché non so chi voterò. Mi sento socialista ma i socialisti non ci sono più e figure che diano un senso e una fiducia non ne vedo. C’è bisogno di serietà per affrontare i cambiamenti storici e noto solo troppa voglia di mettersi in mostra da parte di tutti. Mia mamma aveva come cliente Carlo Levi. Ha saputo che fosse il grande scrittore soltanto l’ultimo giorno in cui lui è venuto a salutarla, prima di andare a vivere a Roma. Era gente di altro e alto spessore. Ringrazio Dio di essere vecchio». Con un figlio di 43 anni, Dario, designer grafico e il più giovane, Giuseppe, 32 anni, chef a Berlino, Angelo Pennè da mesi ha messo in vendita l’attività: «Ma deve subentrare un libraio che abbia voglia di conquistare il quartiere. Abbiamo le scuole vicine, servono idee. Io ho fatto il mio tempo».
AUTOMOBILISTI DI OGNI COLORE
La crisi economica ha ribaltato le prospettive. Trovi Roberto, 62 anni, ex imprenditore edile torinese da generazioni, che chiede l’elemosina davanti al Palazzo Chiablese. Confessa che votava Silvio Berlusconi, «ma la Lega mai». E incontri Albert, 50 anni, congolese, ingegnere meccanico laureato al Politecnico, che la sera scende a riposarsi sulle panchine del giardino dedicato a Madre Teresa di Calcutta. E lì, tra i ragazzi africani di passaggio e le mamme arabe che portano i figli al parco giochi, racconta che vive in Italia da vent’anni, progetta motori. Ma non ha diritto di voto. Come il 15,4 per cento degli abitanti stranieri della città, che sono in regola, lavorano, pagano le tasse e non possono scegliere i propri amministratori. Un sistema di apartheid strisciante.
Torino resta comunque un modello di convivenza. Basta osservare il mercato di Porta Palazzo. Mentre all’Aurora, proprio nell’isolato dove sono cresciuti i banditi di allora Pietro Cavallero e Sante Notarnicola, anche loro clienti della libreria di Angelo Pennè, l’autoscuola Rubatto fondata nel 1918 continua a preparare automobilisti di ogni provenienza. Magari l’istruttore, per farsi capire meglio, fa qualche verso da cartone animato: tipo brum brum e cose di questo genere.
Giustamente, chi proprio non conosce l’italiano non è ammesso. Anche se, come è capitato con un cinese, offre mance stratosferiche: «Qui accanto alla scuola Parini fanno ottimi corsi di lingua per adulti», informa intransigente la segretaria alla reception. Poi entra un immigrato anziano. Piccolino, magro. Parla pochissimo italiano. Deve rinnovare la patente. Consegna quella vecchia e le foto. Sul documento ha gli occhiali. Nei nuovi scatti formato tessera no.
«E gli occhiali?», gli chiede la segretaria. «Ho fatto la cataratta», risponde lui che ha 85 anni. «Ma questa patente è scaduta dal 2015», si accorge lei. «2015?», chiede il vecchietto. «Sì», sorride la segretaria. «Ah, non avevo visto», ammette lui. «Ma ci vede bene?», si preoccupa lei. «Sì, ho fatto la cataratta», ripete lui. L’anziano automobilista non è straniero. Chiama il figlio al telefono e con lui parla siciliano stretto. Appartiene a un’altra generazione che non ha nemmeno avuto il tempo di andare a scuola. E, pur nella sua fragilità di nonno, dimostra che se ci sono riusciti loro, ce la faremo anche noi.