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Moravia questo sconosciuto: i ragazzi non sanno nulla degli autori contemporanei

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Un’insegnante-scrittrice invita nella sua scuola Dacia Maraini. Che accende l’entusiasmo degli studenti. Ma fa emergere un tema cruciale: gli studenti non conoscono gli scrittori del Novecento

Ci inseguiamo da più di un anno per organizzare l’incontro con i miei ragazzi; e, intanto, ho cambiato scuola in cui insegno e città, perché precariato è anche questo: chi avrà la fortuna di ascoltare Dacia Maraini saranno gli studenti del “Turoldo” di Zogno e non quelli del “Pesenti” di Bergamo; sono necessariamente una mercenaria, che dà tutta sé stessa ai propri ragazzi, ma non posso non sentire un po’ di senso di colpa, anche se la colpa non è mia. Dacia dirà, durante l’incontro, che la scuola come Istituzione ha fallito, che sono i docenti a tenerla in vita con la loro passione. Io sono molto meno diplomatica di lei e penso che la scuola venga devastata da quelle Istituzioni, che sopravviviamo solo per i ragazzi, aiutati qualche volta da presidi illuminati. Il senso di colpa mi accompagnerà per tutto il tempo, ma esiste anche la Lara che, più ragazzina dei suoi studenti (che da un anno studiano “Buio”, scritto da Maraini e non da Dacia), adesso può dare sfogo, almeno con sé stessa, alle sue emozioni di donna.

 

Trent’anni fa avevo portato allo stremo Alberto Moravia, impossibilitata a credere che i sogni davvero si potessero avverare, parlando di tutto con lui per quattro ore consecutive. Venticinque anni fa avevo conosciuto Dacia e ora l’avrei rivista. Da allora, ci eravamo parlate solo via mail per accordarci sull’incontro, e quella burocrazia era riuscita a non rivelare la mia emozione, oggi sarebbe stato diverso: sarei andata a prenderla in stazione e non potevo fare a meno di pensare che non mi avrebbe mai riconosciuta. La ragazza spensierata che aveva conosciuto non esisteva più: a prenderla sarebbe andata una cinquantenne con quattro costole (e un quarto di polmone) in meno, con quasi venti chili lasciati in giro in tre anni, impossibilitata a guidare e a camminare per tratti anche brevi. Ripensavo a quando la conobbi: festeggiavo il mio compleanno in una discoteca di Roma, mi avevano dato dei numeri di telefono di persone che mi piacevano e, con l’incoscienza che mi ha sempre caratterizzata, l’avevo chiamata e invitata, certa che mi avrebbe detto di no. Mi rispose, invece, con la massima naturalezza, che avrebbe partecipato; e lo fece, lasciandomi basita. Avevo molti pregiudizi e certezze, a quell’età, come ogni ignorante: uno scrittore serio figurarsi se si presenta in discoteca! Dopo, la incontrai di nuovo, su suo invito, a teatro, ma il suo sì alla discoteca rimase per me indelebile.

Quando vado a prenderla in stazione, è a quel giorno che penso e, quando, infine, la riabbraccio, la voce non c’è, sto tremando e spero solo che non si accorga che sono sul punto di piangere. Abbiamo tanto di cui parlare, ma l’indomani ci sarà l’incontro e dovremo partire presto, la lasciamo in hotel (è mio figlio che mi accompagna ovunque), ci diamo appuntamento per il giorno dopo alle 7, 45. La scuola ha usato un cine-teatro per consentire a più ragazzi possibile di partecipare: si trova in un oratorio e arrivarci è una viacrucis. Io e Dacia siamo nate lo stesso giorno e lo stesso mese, cambia l’anno, perché è evidente che ha parecchi decenni meno di me, essendo stata lei a porgermi il braccio e aiutarmi in quella salita da incubo. Arriviamo e il colpo d’occhio è spaventoso: tutti i posti a sedere occupati, colleghi all’impiedi per più di tre ore, ragazzi sui gradini che accolgono Dacia con un grande applauso. Iniziamo subito, perché l’incontro durerà tre ore ed è prevista una sosta da dieci minuti: le prime domande riesco a farle io, riportando quanto chiestomi dai miei timidi alunni, poi sono i ragazzi a prendersi la scena, con coraggio affrontano il palco con le loro curiosità.

Dacia parla di tutto: il lager in Giappone quando era bambina e il suo non riuscire a buttare via il cibo, arrivando a nasconderlo nei cassetti; il rapporto di amore per il padre, basato sull’assenza di quell’uomo affascinante; l’aborto e la necessità che si usino precauzioni per non costringere la donna a una scelta così drammatica; la violenza sui più indifesi, quei bambini che devono essere subito messi a conoscenza dei pericoli, fin dalla più tenera età; l’amore per la lingua italiana e il suo rigetto per il servilismo che dimostriamo accettando ogni parola straniera; i suoi inizi, i suoi personaggi “pirandelliani”, l’importanza di nutrire una passione; e, poi, la necessità di dare la cittadinanza a chi nasce in Italia: sta parlando di ius soli in territori leghisti e i ragazzi stanno ascoltando, annuiscono. Le domande sono tante, la pausa viene rimandata e finiremo ben oltre l’orario prestabilito, la ascolterebbero fino a notte tarda e lei parlerebbe finché ha voce.

Poi, una ragazza, è una mia alunna, le chiede di Moravia. E so che le parole di Dacia, così come la domanda della mia studentessa, non sapranno trovare una degna collocazione. Perché i ragazzi non sanno chi è Moravia, e non è colpa loro. Ripenso a quando, quest’anno, proposi l’incontro con Dacia: non la conoscevano; e, quando avevo cercato di spiegare loro da quali artisti era stata circondata, ascoltavano indifferenti nomi come Pasolini o Morante. Tutti gli studenti sono stati stregati da Dacia, erano preparatissimi su di lei, i miei colleghi hanno fatto un lavoro straordinario, ma soltanto una ragazza ha chiesto di lui e l’ha fatto perché avevo spiegato in classe chi fosse Moravia. Sono certa di non essere stata la sola, ma se nessuno ha chiesto niente sui grandi del Novecento che ha conosciuto, allora, un problema c’è.

Certo, la sua vita è così ricca da riempire giornate di domande o, forse, non si è voluto essere poco rispettosi, ma la sensazione è che questi ragazzi siano letteralmente affamati di cultura e noi non riusciamo a saziarli. Non ce lo consente la corsa al programma, tutta la burocrazia che ci uccide, le troppe mansioni che ci hanno dato, ma si sta perdendo di vista quella fame.

Dacia le risponde puntando sulla differenza d’età, penso a quante volte gliel’avranno chiesto, e contrappone il caso di Macron, a sottolineare che questa differenza diventa biasimevole solo quando la più grande è la donna; mi sento di aggiungere che, quando lo conobbi io, avevo vent’anni ed ero infatuata di quell’uomo a tal punto che non sarei riuscita mai a dirgli di no. E lo dico non solo perché è vero, ma perché è giusto. Mi parlava di Pirandello, Freud, Sartre che aveva conosciuto e io rimanevo a bocca aperta, cercando altri nomi su cui confrontarmi con lui. Avrei voluto che mi dicesse che amava quegli autori che io amavo e che le nostre affinità fossero su tutto, dall’arte alla religione (non riesco ancora a credere che, come mi disse, non si poneva il problema dell’esistenza di Dio, non gli ho mai creduto, né mai lo farò). Mi chiedo che cosa possiamo fare noi docenti dinanzi a questa fame: iniziare a smetterla di considerare questa una generazione di stupidi mi sembra il primo passo. È così necessario studiare Giovan Battista Marino, poi? Se si sfoltissero i programmi, se si evitasse di considerare intoccabili alcuni autori, forse i ragazzi non sarebbero costretti a non sapere niente dei contemporanei. Perché gli studenti che hanno posto le domande a Dacia avevano letto almeno un suo libro, una ragazza sicuramente più di sei. E perché gli incontri con gli autori devono essere un’iniziativa singola di un professore? Non la si può programmare in ogni Istituto almeno una-due volte l’anno?

Quando finiamo con l’incontro, abbiamo il tempo per parlare un po’ di noi; abbiamo tante cose in comune, anche se le esprimiamo in modi diversi: Dacia è naturalmente gentile e rispettosa, io sono selvaggia e impetuosa. È felice dell’incontro, entusiasta dei ragazzi, per nulla stanca, nonostante autografi e foto; a ognuno di loro ha chiesto il nome, di ognuno ha voluto sapere qualcosa, le passioni, soprattutto. Le nostre visioni della vita divergono solo su pochi punti, su uno in particolare. Andiamo a pranzo, con il Dirigente, mio figlio e le due vicepresidi, e parliamo della sua scelta di essere vegetariana, del suo amore per l’uomo Gesù, di vino, di tanto altro ed è proprio a pranzo che colgo la grande differenza: sono tante le persone che si avvicinano per salutarla, educate e rispettose. Dacia è felice, io non lo sono mai stata. Detesto la popolarità, non sopporto che mi s’interrompa anche mentre sto mangiando, non voglio essere segnata a dito, che si guardi pure che cosa ho nel piatto. Non che ci sia malvagità in chi lo fa, ma non capisco a che serva un autografo, fare una foto con sconosciuti, dovere indossare sempre una maschera all’esterno. Ne parliamo: per Dacia fa parte del mestiere, per me scrivere è il mestiere; la scrittura lei la vede come condivisione, per me la scrittura è un atto privato; la promozione dei propri libri, per me, spetta solo all’editore (a cui va l’85 per cento circa delle vendite), per Dacia è un’ attività normale che l’autore accetta di fare per raggiungere il pubblico. So che lei è la vera scrittrice, così come lo era Moravia che si costringeva un’ora al giorno almeno a buttar giù una pagina, io non sono fatta per questo mondo e il posto in cui posso essere felice è la scuola, tra i ragazzi. Non esiste il giusto e lo sbagliato: sono visioni diverse, anche diversi caratteri, e c’è posto per tutti. Del resto, sono così tante le cose in comune tra di noi e principalmente i ragazzi che entrambe amiamo e per i quali siamo unite: io insegnando e portando loro belle persone che li aiutino a pensare autonomamente, lei girando tante scuole e parlando di valori imprescindibili, di diritti violati, di abusi, di bambini da proteggere e donne ancora sottomesse, di un’umanità che si sta perdendo con la caccia all’immigrato e con l’odio che ci viene inculcato ogni giorno.

Dacia ci ha portato la speranza, ha mostrato la via dell’accoglienza gentile, arricchendo quegli splendidi ragazzi che hanno saputo restituirle amore e che, forse, oggi, sapranno chi fosse quel Moravia che, seppure in tempi diversi, entrambe abbiamo amato.

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