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Mondo
maggio, 2019

Per vincere la sinistra deve fare così

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Sánchez in Spagna. Corbyn nel Regno Unito. Costa in Portogallo.  E non solo. Ecco dove e come i socialisti e i verdi possono fermare l’onda sovranista il prossimo 26 maggio 

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Sembrava peggio, fino all’altro ieri. Stando agli ultimi sondaggi nei ventotto Paesi dell’Unione europea in vista delle elezioni di fine maggio la sinistra larga, quella che va dai socialdemocratici all’ala più radicalepassando per i verdi, dà nuovi segni di vita. All’interno, s’intende, di un mosaico in cui il dettaglio dei singoli tasselli suggerisce letture assai diversificate, ma con indicazioni su una linea che potrebbe essere vincente se perseguita ovunque.
Il segnale più forte in questo senso è appena arrivato dal partito socialista di Pedro Sánchez, fresco trionfatore delle elezioni politiche in Spagna.

Secondo le proiezioni demoscopiche, il 26 maggio il Psoe sarà uno dei partiti della sinistra che crescerà di più nella Ue, rispetto alle europee di cinque anni fa, grazie al netto profilo che si è dato di alternativa alla destra e di federatore di tutto il suo campo. Con un occhio particolarmente rivolto al tentativo di ridurre le disuguaglianze enormemente cresciute dall’inizio della crisi.

Ancora meglio farà, dicono i sondaggi, il Labour inglese, dove in attesa della Brexit comunque si voterà per l’organismo comunitario ripudiato via referendum: il partito di Jeremy Corbyn avrebbe il gruppo nazionale maggioritario in seno al gruppo socialista con venti seggi, uno in più di cinque anni fa. Cosa se ne farà non è dato sapere, causa il per ora imperscrutabile sbocco dello snervante tira e molla tra Londra e Bruxelles. Sicuramente, tuttavia, Corbyn incassa i dividendi dei tentennamenti di Theresa May e di una politica che volge lo sguardo a sinistra nel tentativo di recuperare il suo elettorato storico, quei ceti popolari che al Labour, fino a pochi anni fa, avevano voltato le spalle.

Sánchez e Corbyn sorpasseranno così una socialdemocrazia tedesca logorata dal reiterato e infruttuoso appoggio alla grossa coalizione egemonizzata dalla cancelliera Angela Merkel (meno dieci seggi, a quota 17), per non dire del Pd che nel paragone con il 2014 sconta l’abnorme ed effimero exploit di Matteo Renzi e non supererà, secondo le ricerche, i 16 eletti contro i 31 che aveva. Mentre non conosce limiti la catastrofica caduta dei socialisti francesi, ridotti a mera testimonianza (4 anziché 12) quando sino a sette anni fa ancora esprimevano un presidente della Repubblica, François Hollande, prima di venire cannibalizzati dal loro figlio ingrato Emmanuel Macron, eversore dell’ “ancien régime” in nome di un “né-né” (né di destra né di sinistra) che ha spostato l’asse transalpino verso un duello tra centro ed estrema destra. Solo in piccola parte i voti persi dai socialisti andranno ad aumentare i seggi di La France Insoumise, il partito della sinistra radicale di Jean-Luc Mélenchon, dato in crescita per le europee.

Germania, Francia e Italia: tre pesi massimi diventati il ventre molle quando erano stati l’architrave portante dell’idea progressista con numeri che, se ricordati, producono solo nostalgia. E il denominatore comune del loro malessere è l’affannosa corsa al centro per essere rassicuranti con i mercati, le élite finanziarie, la borghesia, proprio nel momento in cui i cittadini si orientano verso un pensiero forte e una polarizzazione netta. Dei tedeschi abbiamo detto, la parabola di Renzi e del Pd la conosciamo, Hollande cominciò a suicidarsi con il famoso discorso in cui abbandonò i dettami del socialismo.

Ora guardano, gli ex pesi massimi, i risultati del loro fallimento, scoprono che un’altra strada era possibile non solo grazie ai casi dei Corbyn e dei Sánchez, ma anche di esperienze periferiche al cuore dell’Unione, in altri Paesi mediterranei, nel freddo Nord pur scosso da correnti sovraniste, persino nell’Est che tenne a battesimo il populismo.

Il Portogallo è l’esempio più eclatante. Da quattro anni il socialista Antonio Costa guida un governo di cui fanno parte, il Bloco de Esquerda, i verdi e il partito comunista. Ha trattato con la Troika il piano lacrime e sangue quando era sull’orlo del fallimento, riuscendo a coniugare una revisione della spesa pubblica con un welfare dignitoso. Le cifre dicono: deficit allo 0,5 per cento (nel 2011 era all’11 per cento, praticamente default), crescita stimata del Pil nel 2019 all’1,9 per cento e oltre il 2 per cento l’anno prossimo, disoccupazione al 6,3 per cento come non succedeva dal 2002. Tradotto significa, nelle intenzioni di voto, socialisti largamente in testa col 34,1 (e uno scranno in più a Bruxelles rispetto al passato) e il Bloco de Esquerda terza forza al 9,2. Un vantaggio rassicurante anche in vista delle politiche di autunno dove probabilmente ci sarà la conferma dell’esecutivo.
A oriente del Mediterraneo, la Grecia da grande malata è passata almeno nella categoria dei convalescenti.

Alexis Tsipras e la sua formazione, Syriza, ha smussato alcune spigolature che potevano preludere a una Grexit per debiti, si è accollato finanziarie draconiane riuscendo tuttavia ad evitare il famoso paradosso per cui l’operazione è riuscita ma il paziente è morto. Atene è viva, ha appena annunciato che potrà restituire in anticipo al Fondo monetario 3,7 miliardi di euro, è uscita dal piano di salvataggio della Troika lo scorso agosto, torna a crescere pur segnando la disoccupazione più alta del Vecchio Continente (18,6 per cento). Nonostante i sacrifici imposti, misure che altrove avrebbero provocato uno sprofondo di consenso, Syriza resta alta al 32 per cento, aumenta la propria rappresentanza a Bruxelles (7 contro 6) e non dispera in un sorpasso sul filo di lana di Nuova Democrazia, la destra che aderisce al Ppe, ora in vantaggio di tre punti.

Il Grande Nord temeva che la crisi migratoria e le sue conseguenze potessero rappresentare la pietra tombale sugli esperimenti forse più riusciti di socialdemocrazia virtuosa. Ipotesi al momento scongiurata seppure di un soffio. La Svezia di Greta Thunberg nel settembre scorso ha riconfermato alla guida del Paese il premier Stefan Lofven, scongiurando l’assalto dei “Democratici”, nome che si sono dati i nazionalisti euroscettici e anti-migranti ora accreditati del 19,2 per cento e distanziati di quasi nove punti dai socialdemocratici. Più recentemente, a metà aprile, i finlandesi hanno riportato al primo posto i socialdemocratici di Antti Rinne, seppur di un’incollatura (0,2 per cento) rispetto ai “Veri finlandesi” alleati della galassia salviniana. Non un trionfo ma almeno un’inversione di tendenza rispetto alla débâcle subita quattro anni prima. Un segno di un risveglio che si accompagna a una tendenza continentale, seppur timida.

Nell’Est Europa suffragata, questa tendenza, da quanto successo in Slovacchia, forse il Paese che più di tutti aveva accettato il liberismo selvaggio di mercato una volta archiviata l’esperienza comunista. Qui non si tratta del dualismo tra destra e sinistra, ancora largamente confuso, ma del convinto europeismo di Zuzana Caputova, 45 anni, l’avvocatessa ambientalista prima donna ad arrivare alla presidenza della Repubblica dopo le consultazioni del 31 marzo scorso. La carica è poco più che onorifica però rischia di rompere il patto euroscettico tra le nazioni del gruppo di Visegrad di cui Bratislava fa parte. Anche nei Paesi confinanti, a lungo dominati da partiti xenofobi quando non apertamente razzisti, cominciano a prendere coraggio forme di opposizione di eterogenea natura che uniscono sinistra, militanti dei diritti umani, ecologisti. Succede nella Polonia di Jaroslav Kaczynski come nell’Ungheria di Viktor Orbán.

Certo, si tratta di segnali in controtendenza rispetto a un quadro complessivo che a livello Ue vedrà comunque i socialisti perdere seggi, nel complesso, rispetto al 2014 (e i verdi guadagnarne 5 o 6). Il totale della sinistra dunque sarà un segno meno. Bisogna rallegrarsi per una “gloriosa sconfitta”? Certo che no. Ma rispetto al 2014 è cambiato il mondo. Cinque anni in una politica che muta vorticosamente sono un’era geologica. E oggi sembra rallentare la deriva a destra. E spunta qualche fiore al limite del deserto attraversato dall’universo progressista.

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