Pubblicità
Mondo
giugno, 2019

Brexit, guerra dei dazi, Italia: una crisi mondiale può scoppiare in qualsiasi momento

brexit1-jpg
brexit1-jpg

L’uscita del Regno Unito dall’Unione, il rischio default dei paesi più fragili, le guerre commerciali: l’allarme degli economisti e dei premi Nobel sulla situazione globale

brexit1-jpg
«Il mondo è così fragile che una crisi mondiale potrebbe scoppiare in qualsiasi momento», Richard Thaler, premio Nobel per l’Economia, vinto nel 2017 per i suoi studi sull’economia comportamentale, e professore di Economia alla Booth School of Business dell’Università di Chicago, non ha dubbi rispetto all’incapacità dell’uomo di imparare dagli errori passati.

«Anche se ci siamo scottati già un sacco di volte, continuiamo a mettere la mano nel forno», dice sfruttando una delle tante metafore che lo hanno reso famoso in tutto il mondo. Thaler è uno dei pochi economisti che, utilizzando un linguaggio molto semplice, è stato in grado di far comprende una teoria complessa che sostanzialmente spiega come spesso le decisioni prese dagli uomini sono tutt’altro che razionali e quasi mai seguono i principi della micro e macro economia.

«I focolai aperti in questo momento sono parecchi, dalla diatriba commerciale fra Stati Uniti e Cina, passando da un’ipotesi di guerra reale fra Usa e Iran o, ancora, dalla possibilità che Italia e Grecia, alla fine, risultino insolventi. Ci sono indubbiamente un sacco di spie d’allarme che ci segnalano come le cose potrebbero presto prendere una brutta piega», continua Thaler.

Preoccupa il caso Brexit, ad esempio. Che al contrario potrebbe risolversi con un nuovo referendum, specialmente alla luce del post voto del 26 maggio. Basandosi sull’esperienza del passato, il Regno Unito ha un’affluenza alle urne per questo tipo di elezioni molto bassa, circa il 30 per cento, così i leavers, cioè quelli che vogliono la Brexit ed hanno trovato il loro nuovo punto di riferimento in Nigel Farage, potrebbero essere sconfitti dai remainers, cioè quelli che vogliono restare nell’Unione Europea.
Richard Thaler

Questo perché il sistema di voto del Regno Unito prevede che siano i cittadini a iscriversi direttamente nei registri elettorali per poter esprimere la propria preferenza e, secondo la stampa locale, più della metà delle persone che voteranno ha tra i 18 e i 34 anni, dunque quella fascia d’età giovane che non ha mai apprezzato il progetto Brexit. «Le premesse ci sono tutte. Il caso Brexit è un interessante modello di economia comportamentale, che dimostra come spesso le scelte che fanno le persone sono tutt’altro che razionali», spiega il premio Nobel, che continua: «La questione di fondo è che gli inglesi, quando si sono recati al referendum, non avevano alcuna idea di quello che stavano votando. Lo conferma il fatto che, appena dopo le elezioni, quando David Cameron ha dato le dimissioni, Teresa May ha lanciato il suo motto, “Brexit vuol dire Brexit”, che ha ripetuto lungamente nei mesi a venire senza che davvero fosse chiaro cosa volesse dire davvero. Nella mia visione, Brexit non vuol dire propriamente Brexit, almeno non nell’immediato. Specialmente perché nessuno, tantomeno la politica, ha idea di cosa voglia dire Brexit».

Inoltre, spiega Thaler, dobbiamo ricordarci che la vittoria della Brexit è stata portata da una maggioranza del 52 per cento, risicata e «non sufficiente per affermare che gli inglesi hanno dato un frettoloso mandato a Theresa May per invocare l’Articolo 50 e uscire dall’Europa». Il voto contro l’Europa, espresso dai cittadini inglesi è stato un voto di pancia, espressione della delusione, della rabbia e «del malcontento generalizzato, senza alcun calcolo razionale. Su quello che è successo dopo, a proposito della capacità del Parlamento di gestire questa situazione, si potrebbe scrivere un libro-vademecum su “come non prendere una decisione”». I piani di uscita dall’Europa proposti da Theresa May sono stati respinti tre volte e «l’opzione no deal è quella meno popolare di tutte, quindi quella da escludere. Infine, non sono d’accordo con chi considera antidemocratico un secondo referendum: cosa c’è di più democratico di permettere alle persone di cambiare idea? Le norme potrebbero essere modificate, permettendo agli inglesi di uscire dall’angolo».

Resta però da capire se un voto non sarà altrettanto dettato e guastato dal malumore che regna in Europa. Dopo il voto europeo tutti i problemi sono rimasti sul tappeto, soprattutto per quei paesi che più di altri sono rimasti intrappolati nell’imperfezione del modello europeo, dotato di una moneta unica, ma non di un sistema fiscale unificato. La Grecia appunto, ma anche l’Italia.

Intervista
Qui in Uk abbiamo rifatto la sinistra. E voi, in Italia?
22/5/2019
Rohan Kekre
, docente di International Financial Policy all’Università di Chicago, insieme al professore di Harvard, Gabriel Chodorow-Reich, e al docente dell’Università del Minnesota Loukas Karabarbounis, stanno ultimando una ricerca scientifica che dimostra come la Grecia rappresenti la più drammatica e lunga crisi economica che i paesi avanzati abbiano mai riscontrato dall’inizio del secolo scorso, di gran lunga peggiore rispetto a quella del 1929. Questo perché a distanza di dieci anni, il prodotto interno lordo (il Pil) della Grecia non si è mai ripreso, non si è mai sostanzialmente staccato dal punto più basso raggiunto nel 2014.

In base all’analisi dei ricercatori, il livello di tassazione imposto ai greci è così elevato che non comporta alcun aumento del Pil, al contrario lo riduce, perché non consente un aumento degli investimenti, dei consumi e nessun incentivo da parte degli imprenditori a investire in quel territorio: «Nessun investimento industriale risulterebbe sostenibile con gli attuali livelli di tassazione», spiega Rohan Kekre. Dopo il punto più basso della crisi ci si sarebbe aspettati uno spostamento massiccio della manodopera greca verso aree più ricche, seguito da un aumento della richiesta di lavoro da parte delle aziende greche, un successivo incremento degli stipendi e quindi un aumento della manodopera e una ripresa del Pil. Ma gli elevati livelli di tassazione hanno impedito che questo modello macroeconomico funzionasse. Così come l’assenza di una lingua comune, che non favorisce il movimento della forza lavoro in Europa, e il divario di skill professionali fra richiesta e offerta di lavoro nei paesi più avanzati del Vecchio Continente.

Non solo. A questo va aggiunta l’assenza di un’unione fiscale simile a quella americana: «Negli States, quando uno Stato entra in una situazione di sofferenza finanziaria ed economica, esiste un sistema automatico che fa fluire i finanziamenti pubblici in quel territorio, per stimolarne l’industria e aumentarne l’occupazione. L’Europa ha un’unione monetaria, ma non un’unione fiscale, non esiste un modello comune di sostenibilità fiscale che possa aiutare la ripresa delle zone in difficoltà». I tentativi di creare un’unità fiscale sono stati messi in dubbio da Germania e Francia per il timore che gli interventi fossero sempre e solo unidirezionali, facendo quindi pagare ai tedeschi e ai francesi le criticità strutturali della Grecia e degli altri paesi fragili, fra cui l’Italia.

Nel recente passato l’unico elemento che ha consentito all’Europa, alla Grecia e all’Italia di tamponare l’emorragia è stato il discorso del 2012 del presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, il famoso «Whatever it takes» che ha rassicurato gli investitori ad avere fiducia nell’euro. Quella rassicurazione era bastata per avviare una rincorsa di azioni e obbligazioni dell’Eurozona, lasciando però totalmente irrisolta la situazione greca.

«A tal proposito credo che non solo la scelta del successore di Mario Draghi sarà essenziale per il futuro dell’Europa, ma che i paesi dell’Eurozona dovrebbero fare chiarezza sui margini di manovra della Banca centrale europea e sulla possibilità di avviare un processo di integrazione e unione finanziaria, anche parziale», racconta l’economista di Chicago. Una promessa di questo genere, potrebbe quantomeno alleviare la preoccupazione degli investitori di un default dei paesi più fragili.

L'edicola

La pace al ribasso può segnare la fine dell'Europa

Esclusa dai negoziati, per contare deve essere davvero un’Unione di Stati con una sola voce

Pubblicità