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La vita, a volte, è questione di diminutivi. «Al primo collegio docenti, la preside mi ha presentato alla scuola. “Abbiamo una nuova collega, si chiama Ottavia Nicoletti”, ha detto a tutti. Io lì per lì non ho detto niente dell’errore, non volevo sembrare antipatica. Non ho corretto la preside, non ho corretto nemmeno i docenti, o gli assistenti di piano, cioè per capirsi i bidelli. Ma hanno continuato a chiamarmi Nicoletti. Dopo un paio di settimane ho chiesto a una collega con la quale ero entrata in confidenza. “Scusa, io non sono Nicoletti, ma perché mi chiamano tutti così?”, ho domandato. E lei, stupitissima: “Ma che non lo sai?”. E lì mi si è aperto un mondo. “Nicoletti è un nome di qui. È quello del cassiere della Banda della Magliana. Ha casa alla collina della pace, più in là, a Borgata Finocchio, la villa che adesso è sequestrata»
Ed è così che, in un istituto tecnico della periferia est di roma, Ottavia Nicolini, figlia di Renato Nicolini, geniale inventore dell’Estate romana, assessore, architetto e tante altre cose, è stata scambiata - ma senza sobbalzi, al contrario, con estrema naturalezza - per una figlia, una nipote o una qualche parente di Enrico Nicoletti, considerato il cassiere della banda raccontata da libri e film (il Secco di Romanzo criminale, per dire), l’ultima volta in galera con l’accusa di associazione a delinquere, truffa, usura, falso, riciclaggio e ricettazione.
Un piccolissimo aneddoto che dice molto di Roma, dell’Italia. Abbiamo avuto anche Nicolini, ma teniamo presente soprattutto Nicoletti. È in qualche modo più d’attualità. Anche perché - va detto - tra Tor Vergata e le pendici dei Castelli romani l’odore dell’Estate romana non è arrivato nemmeno, quello della banda della Magliana invece ha invaso tutto.
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«Ma non mi chiamo Nicoletti», ha obiettato lei alla fine, a dispetto di una lampante convenienza, se non altro relazionale: «Mi chiamo Nicolini». Quarant’anni, studi di filosofia a Roma, da oltre un decennio a Francoforte a insegnare etica a scuola, esponente di una generazione che per metà è costretta alla fuga, Ottavia Nicolini è adesso divenuta, attraverso la Buona scuola, il prototipo di un micro esperimento di ingegneria sociale. Questo qua: riporta dall’estero un cervello fuggito, assegnagli un ruolo da fantasma almeno per un anno, e prova a tenercelo, in italia. Se ci riesci, o se ci riesce quel cervello. Perché alla fine restare in Italia è un’impresa pari a quella di andarsene.
«Io sono la buona scuola. Anzi, più precisamente: io sono il potenziato», esordisce Nicolini entrando nel caldo infernale nella Fiat Panda blu senza aria condizionata, nel primo giorno di agosto, per l’ultimo andirivieni casa-scuola, dopo un anno passato a pendolo, talvolta con l’auto, più spesso con la combinazione del trenino Termini-Giardinetti e poi la metro C, che da quando esiste ha cambiato la vita a tutto il quadrante est lungo la Casilina.
Il potenziato dunque. Una figura mitologica dell’ultima riforma renziana. Quasi un super eroe, personaggio che peraltro nella scuola italiana non scarseggia, a tutti i livelli. Il potenziato è infatti colui che sta nell’organico di una scuola in virtù del fatto che ne potenzia l’offerta formativa: a logica dunque dovrebbe chiamarsi il potenziante. Di fatto, nella realtà, questa funzione attiva si traduce in una apposizione passiva. Il potenziante si fa potenziato perché lo si considera una specie di miracolato: qualcuno che senza il potenziamento non avrebbe un posto di lavoro.
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È comunque proprio così, in effetti, che Nicolini come migliaia di altri suoi colleghi, ha finalmente avuto il contratto, anni dopo la laurea, il tirocinio formativo attivo, il concorso, l’università, il dottorato, gli esami extra, e dopo molto tempo passato a insegnare in Germania, lavoro che si è trovata a Francoforte dopo aver capito che l’aver vinto una borsa di studio di un anno per l’università all’estero (una gloriosa Marie Curie) equivaleva, per il sistema accademico italiano, averla data in carico per sempre al sistema tedesco. Come una famiglia troppo numerosa, costretta a liberarsi dei suoi figli.
E che fa il potenziato? «Gnente», risponderebbero i ragazzi dell’istituto tecnico dell’estrema periferia di Roma, dopo Centocelle, il Raccordo anulare, Torre Angela, Torre Gaia, Borghesiana, quasi a Rocca Cencia, dove Nicolini è stata chiamata a insegnare in una scuola nel mezzo del nulla. Dentro un rettangolo di cemento chiuso da cancelli e grate e circondato da orti, pollai, campi incolti, discariche improvvisate, baracche, villette linde coi leoni di pietra fuori, un sacco di inferriate ovunque, in quel punto sospeso in cui Roma ha quasi finito di allungare le dita, ma campagna vera non è.
«All’inizio, più che altro, ero spaventata. Dalla novità del tecnico - insegnando filosofia e storia, prima della riforma, potevo essere chiamata praticamente solo al liceo - da una periferia prima sconosciuta, dal fatto di avere un posto sì ma non una classe, senza un voto da dare, senza un programma, un registro, senza una continuità. Pensavo: non ne uscirò viva».
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Perché il potenziato è in una specie di limbo. Esiste, ma non ha determinazioni. Non ha come si dice materie curriculari, non insegna nulla. Il che ha dato luogo a conversazioni surreali. «“Professore”, ma lei è di ruolo? No perché se vuole diventa’ di ruolo deve fare come diciamo noi: non deve fare lezione”, mi dicevano i ragazzi a scuola. “Ma io sono già di ruolo”, rispondevo. “E che insegna?”, chiedevano. “Insegno filosofia”. “Ma qua filosofia nun ce sta”, osservavano: “E allora come facciamo? Nun può insegnare”».
In teoria per metà del tempo il potenziato dovrebbe lavorare a progetti di ampliamento dell’offerta didattica, in pratica il suo tempo è quasi tutto è assorbito dalla copertura delle assenze degli altri docenti. A dispetto dell’intenzione iniziale, che era più ambiziosa, il potenziato è un supplente che però resta sempre nei paraggi. Con un programma che cambia di giorno in giorno, a seconda delle classi che restano scoperte. Senza potersi volatilizzare, ma nemmeno poter fare qualcosa di preciso o programmato.
A questo, bisogna aggiungere la teoria del niente. «Professore’ questa è l’ora de buco, e nell’ora de buco non se fa gnente, e così noi volemo stare. A fare gnente. E manco lei deve fa gnente: se pija il telefonino, pure lei, e sta lì, senza fa’ gnente», dicevano dondolando sulla sedia quelli della classe più difficile: «L’avevo soprannominata la classe del gnente. Io dicevo: ma ragazzi ma come facciamo a non fare proprio niente. È impossibile», racconta Nicolini riassumendo uno slalom superato tra furibonde camminate sui monti dietro Frascati, le risate con la madre la sera a casa e un corso di aggiornamento organizzato dalla stessa scuola con un titolo che è tutto un programma: “Linguaggio della non violenza e risoluzione del conflitto”.
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Perifrasi che si direbbe già pronta per la parodia in un film di Nanni Moretti, e che invece ha funzionato.In aule che, a dispetto di quanto ci si aspetterebbe, sono assai più fredde di quelle di Francoforte («la maglia di lana mi è servita a Roma, non in Germania»), l’inizio di qualsiasi ora di lezione era, anzitutto, un rotondo no.
Assolutamente no. «La prima difficoltà era farsi ascoltare, superare quel rifiuto, rompere il muro del niente. In Germania, soprattutto se sei un docente italiano, nell’anno di affiancamento che è previsto ti insegnano a superare il metodo della lezione frontale: quella in cui tu parli e gli studenti stanno zitti e ascoltano. I tedeschi pensano che l’Italia sia didatticamente più indietro di quanto non siamo in realtà, ma è vero che quel metodo la scuola italiana, almeno quella che ho visto io, non l’ha ancora davvero abbandonato. E va anche detto che io stessa, dopo anni nelle scuole tedesche non vedevo l’ora di tornare al metodo frontale: zitti e ascoltate, basta con questa interazione».
Però poi, abituata a classi curiose e aperte agli stimoli, ha ritrovato l’oppositività italiana. «Una opposizione fortissima a qualsiasi proposta fuori dall’attività scolastica, quella che prevede che tu stia fermo ad ascoltare la lezione, oppure che giochi col cellulare durante le pause. A un certo punto, a caccia di attività terze, ho provato a far costruire una playlist a una classe: ognuno indicava la sua canzone preferita, poi si votava, alla fine avremmo ascoltato le prime tre classificate. Un modo per far stare insieme i ragazzi, che li ha pure entusiasmati. Ma è stato difficile gestire anche quello».
Si dice che chi si ama si ascolta, là era persino difficile accettare che qualcun altro aprisse bocca. «I ragazzi parlavano sopra, non rispettavano i turni, non sapevano collaborare. Uno magari per l’entusiasmo saltava in piedi sopra il banco, un altro faceva partire una cassa bluetooth grossa come un bollitore nascosta sotto un mucchio di cappotti, un altro lanciava in aria il telefonino. Complessivamente, ho trovato studenti che rispondono soltanto all’imposizione delle regole: di fronte alla severità sono timorosi, se devono stare zitti lo sanno fare, ma se invece gli chiedi di stare attivi, se gli dai la libertà impazziscono, non sanno come gestirla, non sanno che farsene, perché non è più attività scolastica, non è obbligo, e allora non hanno la casella corrispondente: è gnente. Come se tutto il sistema fosse organizzato per esaltare la passività: una cosa diversa li manda in tilt, e allora si parlano addosso, non sanno regolarsi. Che poi è una questione culturale, è quello che succede anche fuori, in qualsiasi talk show dove vince chi parla più forte».
Altre iniziative hanno funzionato meglio. «Come quella volta in cui ho portato un enorme foglio di carta da pacchi marrone. Avevo in mente di fargli ricostruire il territorio intorno alla scuola, una cartografia dei luoghi cari». Il foglio è stato accolto così: «Giusto che sia marrone prof, qui è tutta una merda!». L’iniziativa invece così: «Qua non ce sta gnente da segnare, è tutto da dimenticare».
Poi invece è venuto fuori il parco degli acquedotti, dove vanno a fare i pic nic, il bar dove prendere il tiramisù, le stazioni della metro C dove passare i pomeriggi d’estate. Alla fine ho distribuito l’Infinito e gli ho detto magari anche quello era un posto tremendo, non c’era niente manco lì, giusto un cespuglio. I luoghi cari non sono per forza belli. Ecco, quella volta, Giacomo Leopardi l’hanno accettato», racconta Nicolini passeggiando sopra la terrazza di Frascati, dove qualche volta è salita per guardare quella sfida dall’alto.
Adesso che l’anno è finito, e tutti gli adempimenti burocratici sono compiuti, tornerà a fare il cervello in fuga, a Francoforte, dove peraltro c’è ormai la sua famiglia. «Non credo che i ragazzi mi possano ricordare, troppo poco tempo. Io invece li ricordo uno per uno. Ecco la cosa più terribile: ti ci affezioni davvero. Intanto perché sono persone molto più simpatiche - difficili sì, ma vive, spontanee, non noiose. E poi perché capisci che ci sarebbe tanto da fare, che rappresenti una struttura chiamata a prendersi cura, che potresti persino servire davvero a qualcosa. Qui, più che là».