
In Venezuela la tensione è tale da quando Nicolas Maduro ha vinto in extremis la sua battaglia contro Juan Guaido - stendendogli intorno un cordone militare inespugnabile - che un emissario di Trump ha incontrato in segreto a fine luglio Diosdado Cabello, socialista vicinissimo al dittatore e prima ancora a Hugo Chávez, in un ennesimo disperato tentativo di risolvere in qualche modo il nodo della successione. In Brasile, Jair Bolsonaro ha dato prova nei primi otto mesi di tale arroganza e pericolosità, fra dichiarazioni di disprezzo per i parenti dei desaparecidos e minacce contro omosessuali o indios, che perfino Trump ha congelato la nomina del figlio Eduardo ad ambasciatore in America almeno fino a quando non prenderà le distanze da “The Movement” di Steve Bannon, il raggruppamento di estrema destra di cui fa parte anche Matteo Salvini.
E ora l’ultima tappa, l’Argentina. Anch’essa rischia di autoescludersi dalla cerchia delle democrazie liberali e compromettersi i rapporti con l’Occidente. Le elezioni politiche in calendario il 27 ottobre sono diventate l’ultima prova di tenuta rispetto alla retromarcia dell’intero continente verso posizioni dittatorial-populiste che si credevano dimenticate. Ma il loro esito a questo punto è quasi scontato, dopo la sorpresa delle primarie dell’11 agosto (che in Argentina servono a selezionare i candidati dei principali partiti che si sfideranno al voto politico) quando a dispetto dei sondaggi il candidato neo-peronista Alberto Fernández ha umiliato l’attuale presidente Mauricio Macri, liberale e “market-oriented” come dicono gli analisti finanziari. Fernández ha avuto il 48 per cento dei consensi, Macri il 33.
Se le percentuali verranno mantenute - in Argentina votare alle primarie è obbligatorio - sarebbe cosa fatta anche senza il ballottaggio: si considera maggioranza assoluta già il 45 per cento, e la vittoria viene pure assegnata al primo turno in presenza di una vittoria con il 40 per cento purché ci siano almeno 10 punti di vantaggio. «I mercati danno già per scontato il successo di Fernández», taglia corto Yerlan Syzdykov, responsabile della gestione per i emergenti della francese Amundi, il maggior “asset manager” d’Europa. «Anche se la quota argentina nei vari indici globali è modesta i rischi geopolitici sono elevati e dal punto di vista finanziario scatta una riduzione nei portafogli, con interessi e volatilità in aumento, per i titoli dei Paesi emergenti».

Così si spiega il crollo del peso del 30 per cento sul dollaro nel solo lunedì 12 agosto, livello da cui non si è più ripresa, e lo scivolone del 40 per cento della Borsa di Buenos Aires, il secondo maggior crollo al mondo dopo quello avvenuto in Sri Lanka degli anni ’80. Anch’essa è rimasta al palo nelle settimane successive. «Sui mercati circola una fortissima preoccupazione», spiega Alida Carcano, partner di Value Investments, «perché per i bassi tassi in Occidente una quota sempre maggiore di investimenti si era concentrata verso i Paesi a basso rating ma più alti rendimenti, in primis l’Argentina. Si rischia di dover vendere tutto a qualsiasi prezzo sopportando perdite e ampliando il movimento al ribasso dei bond stessi».
Per Macri, sessant’anni, figlio di un costruttore arrivato da Reggio Calabria nel 1948, è scattata la corsa contro il tempo: visto che la débâcle è attribuita al fallimento delle sue ricette economiche, il 18 agosto ha licenziato il ministro delle Finanze, Nicolas Dujovne sostituendolo con il fedelissimo Hernàn Lacunza, e ha varato un pacchetto di misure anti-crisi: aumento del salario minimo, congelamento del prezzo dei carburanti, sgravi fiscali per meno abbienti e piccole imprese. «Ma sui mercati si è diffusa la convinzione che sia troppo tardi per ribaltare la situazione», commenta Joseph Mouawad, gestore di debito emergente di Carmignac, società internazionale di asset management.
Lo scenario più probabile è l’ennesima ristrutturazione del debito pubblico argentino, «oggi pari a 330 miliardi di dollari, solo 80 dei quali in pesos», precisa Mouawad. «I bond argentini sono quotati ormai a non più del 40-45 per cento del valore nominale. L’ipotesi più verosimile è che si procederà ad un haircut (taglio del valore nominale dei bond, ndr) in una misura del 60-65 per cento. Il taglio potrà essere disposto in parte con una legge argentina ma per circa 60 miliardi servirà un accordo con il Fmi e poi per una cifra analoga con altri creditori internazionali. Non sarà una partita facile, ma sarà l’unico modo per evitare un caotico default».
Non sarebbe certo la prima volta. Il fallimento dello Stato è la maledizione dell’Argentina, un Paese ricchissimo di risorse naturali, con una popolazione acculturata, con un’agricoltura e un’industria diversificate, eppure condannato a un destino irreversibile di disgrazia economica. Si cominciò subito male, nel 1824, appena otto anni dopo la dichiarazione d’indipendenza dalla Spagna, quando l’amministrazione chiese un prestito da un milione di sterline alla banca Baring di Londra per finanziare il porto destinato a sostenere le esportazioni agricole: il prestito non fu mai restituito e fu il primo di 14 default fra totali e parziali (quando cioè viene restituita solo parte del debito).

Si continuò nel 1890 quando si bloccò la restituzione dei debiti accesi per finanziare il faraonico sviluppo immobiliare di Buenos Aires, fra palazzoni in stile rinascimentale e grandi boulevard. E poi tanti altri passi falsi, dalla sospensione dei pagamenti internazionali dopo la sconfitta nelle Falkland nel maggio 1982 fino alla madre di tutti i fallimenti nel 2002, dovuto a un misto di eccessive spese statali e all’infausta decisione di agganciare il peso al dollaro. Il cambio 1:1 non ha retto e l’economia è crollata: un’operazione pensata per contenere l’inflazione ha avuto esattamente l’effetto opposto. Ogni volta bisogna ricominciare da capo, con nuovi prestiti concessi a condizioni sempre più dure e sotto la vigilanza sempre più occhiuta dei mercati e delle istituzioni finanziarie internazionali. Anche stavolta è in corso di erogazione un finanziamento di 57 miliardi di dollari dal Fondo monetario che dovrà essere necessariamente rinegoziato.
Ogni fallimento porta in sé i germi del successivo, in un circuito diabolico che dovrebbe servire da lezione per i Paesi a forte debito, fermi restando i fattori specifici. Il default del 2002 è stato l’avvio della tormentata vicenda dei “tango bonds”, sottoscritti massicciamente anche da investitori italiani, che si è risolta solo nel 2016 con gli accordi di compromesso. La soluzione, resa fino allora impossibile dall’intransigenza di Buenos Aires, era il fiore all’occhiello della presidenza Macri e il simbolo della riammissione del Paese nella comunità finanziaria internazionale.
«Macri ha avuto il merito di “fare pace” con gli americani e il resto dell’Occidente dopo anni di politiche demagogiche la cui impronta risaliva alla presidenza di Juan Perón (dal 1946 al 1955 e poi ancora nel 1973-74, ndr), riprese e accentuate negli anni dai due Kirchner, Nestor e la moglie Cristina che oggi si ripresenta come vice di Fernández, al potere dal 2003 al 2015 bloccando il negoziato sul debito», spiega Brunello Rosa, economista della London School of Economics. «Macri ha fatto una politica di rigore di bilancio e ha cominciato a smantellare i sussidi all’economia, dall’energia all’agricoltura, che erano l’eredità del peronismo e del “kirchnerismo”. Ha poi avviato l’abbattimento delle tasse sull’esportazione e dei dazi all’import. Ma non è riuscito a completare l’opera per l’accavallarsi di incidenti di percorso». Il primo è stata l’inflazione, che ha ricominciato a salire spinta dal fatto che le aziende, private dei sussidi anche su beni di prima necessità, hanno rialzato forsennatamente i prezzi, e oggi supera il 50 per cento. Poi c’è stato l’irrigidimento dei mercati quando è apparso che Macri volesse imporre scelte politiche alla banca centrale, «ma ci sono stati anche fattori di semplice sfortuna come la drammatica siccità dell’inizio del 2018 che ha compromesso buona parte dei raccolti agricoli vitali per l’Argentina».
Il 2018, che doveva essere l’anno trionfale per Macri da suggellare con il G20 di novembre a Buenos Aires, si è chiuso invece con una caduta del Pil del 2,5 per cento. «E Macri ha dovuto assistere da un angolo coperto all’evento nella capitale che ha finito con l’essere dominato dai colloqui fra Trump e il presidente cinese Xi Jinping», racconta Alessandro Terzulli, capo economista della Sace, la società che finanzia l’export italiano. «L’Argentina rischia di essere una grande occasione perduta per le nostre aziende. L’export, che era arrivato a 1,3 miliardi, è sceso del 14,3 per cento nel 2018 e per il 2019 è previsto un altro -9 per cento fino a non più di un miliardo. L’Italia contava più di chiunque altro sulle liberalizzazioni e sulla proiezione internazionale di Macri. Ora tutto rischia di essere compromesso e addirittura potrebbe tornare in discussione l’accordo Mercosur-Ue, che deve ancora essere approvato dai parlamenti nazionali di entrambe le aree e darebbe un sicuro impulso agli scambi commerciali».