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Il padre è sconosciuto.
Sono passati molti anni da allora, ma la fama di Ezio, noto con lo pseudonimo di Silvio D’Arzo, produce ancora echi. Quest’anno sono comparsi due testi che lo riguardano, “Appunti per una Biografia” di Carlo Pellacani, e “La parabola letteraria di Silvio D’Arzo” di Giovanni Zanichelli. Esiste un’associazione a lui intitolata, gli è stato dedicato un premio. Alcune sue opere continuano a essere ristampate. Ezio è morto da tanto tempo - nel 1952 - ma la memoria ancora resiste, forse ancora troppo fievole per uno scrittore che ci ha regalato un racconto perfetto come “Casa d’altri”, o forse, considerando i nostri tempi, questa memoria è un piccolo miracolo di delicatezza.
Ma ritorniamo a quando è nato. Sono anni terribili per Reggio. I reduci della Grande Guerra tornano a casa: invalidi, disperati, profughi si accampano in cerca di aiuto. Il cibo è poco, i soldi pochissimi e i reggiani che si contendono le tessere annonarie non hanno nulla di superfluo da dare ai bisognosi. Con i reduci, giunge in città l’epidemia di spagnola.
Rosalinda, la madre, ha superato i 35 anni. È donna matura, che si arrangia lavorando come cassiera al cinema Radium e andando a servizio nelle case dei reggiani abbienti. Non ha più l’età dei colpi di testa, degli innamoramenti futili, delle passioni che si dispiegano in un donarsi ingenuo. Nello scegliersi un amante, Rosalinda non ha illusioni di vita coniugale, credo; ma di certo nutre il bisogno di un momentaneo sollievo alla fragilità circostante.
Ezio sarà l’unica grande felicità della sua vita.
Comunque sia, viene registrato in comune come figlio di NN, che all’epoca, nella provincia italiana, è un marchio di vergogna indissolubile.
Nel 1940, un padre posticcio, Pietro Comparoni, lo riconosce davanti a un notaio. Dopo una breve ricerca, Ezio sceglie quell’uomo, perché gli permette di mantenere il cognome materno.
Risolto il problema giuridico, se ne scorda.
Di fronte a una esterrefatta segretaria di scuola media, una volta dice che suo padre si chiama Francesco. Che importanza può avere un nome, quando lui stesso ha deciso di chiamarsi con innumerevoli pseudonimi, fino a scegliere Silvio D’Arzo che significa solo Silvio Da Reggio, in dialetto reggiano?
Ezio dimostra una precoce intelligenza. Partecipa alle lezioni di Ninein, un’anziana maestra che accoglie i ragazzini a casa sua. Vive con la madre e la zia, e poi dal 1930 solo con la madre. Rosalinda per sbarcare il lunario esercita il mestiere di cartomante. Sono estremamente poveri.
Il 1930 è un anno importante per la biografia di Ezio. A Reggio viene a esibirsi il funambolo austriaco Strohschneider che dà spettacolo attraversando sulla corda la piazza principale, tanto da rimanergli indelebilmente impresso nella memoria. Il piccolo Ezio probabilmente vede nel funambolo una sorta di alter ego, colui che si libera dalle costrizioni sociali, e cammina nel cielo a rischio della vita.
La seconda cosa importante è che, dopo diversi traslochi, si trasferisce definitivamente in uno stanzone di via Aschieri.
Quello stanzone diventerà leggendario.
Il luogo del suo esilio.
Silvio D’Arzo era una figura dolce e fiera, sognatrice e temeraria, così lo tratteggiò Attilio Bertolucci. Discorreva di cinema, di teatro, di pittura, un po’ di politica, senza alcuna censura, con limpidità e verità. Era un uomo ardente, appassionato, e trascinava chi gli stava vicino nelle sue passioni.
Ma c’era un limite invalicabile: la porta di casa in via Aschieri n. 4.
Nessuno degli amici più intimi riuscì ad attraversa quella soglia, lo aspettavano dabbasso, in uno di quei tipici cortili emiliani, color dell’umidità, vuoto e povero, con ferraglia ammassata sulle mura scrostate, e biciclette da operaio con un freno solo e impossibile. Ezio viveva al primo piano, in uno stanzone poveramente ammobiliato con un grande letto, un tavolo ingombro di libri, una stufa arrugginita, un tubo di ferro che lo solcava per tutta la lunghezza. Un interno dickensiano, dove gli odori della cucina si sommavano alla poca aerazione per non disperdere il calore durante l’inverno, e la muffa si apriva a fiori sulla soffitta intrisa di fumo.
Attilio Bertolucci aggiunse che Silvio D’Arzo era uno scrittore «straordinario e sfuggente, angelico e diabolico». Si può essere buoni fin nel profondo dell’anima, ma se si nasconde il proprio stanzone agli amici, se si esercita una quotidiana menzogna per omissione, non si può che diventare sfuggenti e diabolici. La scrittura forse acquista strati, ma la vita reale assume i tratti di un girone infernale.
Per Silvio, come ha scritto in “Contea Inglese”, esiste un autore che risplende della luce dell’esilio. È il comandante T. E. Lawrence, il celebre Lawrence D’Arabia, che si condanna a un perpetuo esilio a causa del tradimento di Londra e per il rimorso di aver spinto altri uomini a vivere i suoi tormenti e i suoi sogni. Ma, aggiunge D’Arzo, la sua pena più profonda e segreta ha ben altre sorgenti, affonda nel rimpianto di quella perduta stagione in cui sogno e realtà, sogno e possibilità di realizzazione, si sovrapposero e si confusero nel corpo e nell’anima di una identità irripetibile. Solo per pochi anni di guerra e rivoluzione, Lawrence poté vivere in pace con sé stesso e con gli uomini.
L’esilio era collegato alla grandezza. Un segno di distinzione. La stanza chiusa di via Aschieri, come la Patusan dell’amatissimo lord Jim, era nello stesso tempo maledizione e gloria.
Silvio inizia a scrivere giovanissimo. Gli pubblicano “La valanga” in una antologia quando ha solo quattordici anni. Gli editori che lo conoscono si stupiscono di trovarsi di fronte a un ragazzino.
Studia da privatista per l’esame di stato a Pavia. Si iscrive all’università. Fa parte dei Guf. Tiene addirittura una conferenza sulla cultura fascista. Si laurea a Bologna con una tesi di glottologia sul dialetto reggiano, che gli aprirà le porte dell’insegnamento in alcuni istituti della zona.
L’8 settembre 1943 è a Barletta, destinato al fronte sull’Egeo. La notizia dell’armistizio arriva verso sera. Il 23 settembre viene fatto prigioniero dai tedeschi con l’intero reggimento, e caricato su una tradotta, verso i campi di concentramento tedeschi dove si muore di stenti. È sconcertato per la mancanza di dignità umana dei suoi commilitoni, che litigano per un pezzo di carne. Possiamo vedere la scena, un treno stipato, puzza, bisogni corporali espletati quando capita, nervosismo, bestemmie e insulti per qualche centimetro di spazio in più, odi furibondi, risse che esplodono per rabbia e terminano per indolenza.
Silvio deve averne abbastanza, e immagino non della paura, o del timore fisico delle botte, o perfino della morte. Ne ha abbastanza, lui che è un umanista cresciuto con la letteratura inglese, di quel mondo capovolto, indecoroso, volgare e irredimibile. Se decide di scappare è per non vedere più i suoi compagni d’armi comportarsi peggio delle bestie. A Francavilla approfitta di una fermata, forza la porta dello scompartimento e fugge per i campi. Raggiunge Reggio con una certa facilità e si chiude nello stanzone di via Aschieri.
Silvio non scrive nulla del periodo che va dalla fine del 1943 alla primavera del 1945, non una sola parola, nemmeno sotto pseudonimo. Chiuse quel periodo come aveva chiuso la stanza di via Aschieri. Non ne sappiamo niente se non per le testimonianze degli amici.
Solo due dettagli bucano la coltre tenebrosa di questo ostinato silenzio. Il bisogno, espresso in una lettera a Vallecchi, di umanità e semplicità, segno di una nuova idea di letteratura, che vada al di là delle frasi rompicapo e iperletterarie (e quindi artefatte e lontane dalla vita) dei suoi precedenti lavori. E un esaurimento nervoso di cui fu vittima nel 1945. Silvio ne parla nelle lettere a Cecchi. Dice che, visto che l’esaurimento si ostina a non passare, le sue giornate saranno un po’ povere. È chiaro che non si riferisce a una povertà materiale. La povertà a cui si riferisce è umana, riguarda la dignità che aveva visto scendere ai livelli più bassi durante il viaggio in treno. Lo possiamo immaginare come un capitano Achab alla caccia non di una balena bianca, ma del poco di umanità che riusciva a conservare in sé, e a apprezzare negli altri.
Credo che “Casa d’altri”, definito da Montale un racconto perfetto, nasca da questa temperie spirituale. In un isolato paese dell’Appennino, un prete disilluso si trova a fronteggiare il desiderio di “andarsene un po’ prima” di una vecchia che lava pezze e che ha, come unica amica, una capra.
Esilio. Semplicità. Umanità.
L’azzurro di dio tra la nuvolaglia, come scrive Silvio nell’articolo dedicato a François Villon.
Il 28 dicembre 1951 D’Arzo così si congeda con l’editore, il suo unico editore, che è tornato a cercarlo: «Tante cose, caro Vallecchi, e una stretta di mano. A suo tempo mi rifarò vivo con 500 pagine». Non ringrazia, non chiede nulla. Dice che si farà vivo con 500 pagine. A me ricorda un po’ il tornerò presto con cui si conclude la Bibbia.
Come Cristo non è tornato, nemmeno D’Arzo tornò.
Morì poco dopo di leucemia a soli trentun anni.
Era uno schema nella mente di Silvio: l’idea di scrivere di volta in volta la cosa migliore, e quindi relegare a un suo pseudonimo il passato letterario. Risorgere ogni volta con qualcosa di perfetto e di definitivo, salvo scoprire subito dopo che c’è qualcosa di più perfetto e definitivo. Essere ogni volta una persona nuova.
Credo però che per Silvio lasciarsi alle spalle “Casa d’altri” fosse qualcosa di più del solito schema. Penso che fosse finalmente in grado di aprire la porta di via Aschieri, di parlare di guerra, e del paesaggio umano che era sorto dopo la guerra. La malattia lo aveva reso più fragile, più sensibile, ma senza morbosità, più duro e affilato. Forse era veramente in grado di aprire le sue stanze chiuse. Credo che potesse scrivere davvero 500 pagine che avrebbero cambiato la nostra letteratura.
Purtroppo, come dono inatteso, ci dobbiamo accontentare della perfezione di “Casa d’altri”. Il più bel racconto del Novecento italiano.
Racconta Silvio D’Arzo che Robert Louis Stevenson morì la notte del 6 dicembre 1894. Gli si ruppe un capillare in testa, e si spense in pochi attimi. Fin dai primi tempi del suo soggiorno a Samoa, Stevenson aveva espresso il desiderio di essere sepolto sulla cima del monte Vaea, tra la foresta e la vetta, tra il cielo e la terra, in perfetta solitudine, isola nell’isola che aveva scelto per vivere. Il medico, chiamato d’urgenza nel cuore della notte per constatare il decesso, aveva ordinato che la sepoltura doveva essere effettuata entro le tre del mattino. Se ne andò lasciando i famigliari più disperati che mai. Un desiderio di Stevenson era sacro, ma per arrivare fin sulla cima del Vaea serviva aprirsi un varco fra la più fitta e temibile vegetazione. Ma ecco che tutta Samoa risponde alla domanda. «Si va dappertutto a caccia di asce, vanghe, badili e picconi, si cercano ovunque seghe coltelli e ogni altro strumento, e centinaia e centinaia di indigeni cominciano a salire lungo il pendio». La bara viene portata sulla cima, seguita da un corteo di indigeni vestiti a lutto. Uno sforzo estenuante che dura cinque ore nel silenzio più completo, perché nessuno osa emettere nemmeno uno sbuffo di fatica. E infine viene deposta nella tomba e ricoperta di terra. Tutt’intorno ci sono il cielo, gli alberi, la terra fresca, e la vasta distesa dell’oceano, anch’essi silenziosi.
Tusitala in samoano significa il raccontatore di storie, e cosa c’è di più bello per un raccontatore di storie che essere sepolto nel silenzio, il silenzio a cui condanna il mondo dopo che se ne è andato.
Penso che Silvio volesse morire così, credo sia il sogno di qualunque scrittore. La partecipazione della gente, la sensazione diffusa che si sia persa una voce, e non una voce qualsiasi: la propria voce, perché una cosa scritta bene è scritta con la collaborazione di tutti, e ognuno la sente propria, come se l’avesse scritta insieme allo scrittore.
Invece morì da solo.
Non permise neppure alla donna che amava, Ada Gorini, di fargli visita in ospedale. Venne qualche amico, questo sì, e qualche letterato, ma la madre vegliava fuori e la stanza d’ospedale rimase chiusa, come era rimasta chiusa la stanza di via Aschieri.