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Chi non ha soldi va lento. È la certezza dell’Italia che per muoversi ripone l’orologio e sale su un mezzo che ha fatto la storia: la corriera. Nei primi anni ’60 collegava paesi isolati e dialetti diversi, timida avanscoperta di un’unità mai ultimata. All’epoca a bordo dominava l’euforia dello scoprire il nuovo con tanto di chitarra. Oggi il brusio dello stupore è rassegnazione che smorza la rabbia. Vite e speranze sballottate, sguardi che scrutano fuori dai vetri a scandagliare opportunità.
È la bussola della diseguaglianza: rende netta la distinzione tra chi può salire sull’Alta Velocità e chi deve abbassare le ambizioni, concedendogli di mantenere gli affetti pagandoli con il tempo. Sono i bus della nuova migrazione, muta e silenziosa, che spopola il Sud rifornendo il Nord di risorse umane low cost, come il prezzo di questi biglietti. Studenti e famiglie, cervelli in fuga e anziani che partono cercando altrove qualcosa di meglio.
La modernità è soltanto il wi-fi, tutto il resto riporta a un passato amaro. Tante compagnie riempiono il vuoto tra ricchi e poveri, assicurando risparmio e collegamenti facili, connettori di comunità dai redditi precari. Venti euro da Roma a Milano, meno di trenta da Crotone a Firenze, si può viaggiare anche con tre euro. Più si acquista il biglietto in anticipo, più si guarda alle offerte speciali, più si risparmia.
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È un venerdì di fine estate nel profondo Nord-Est. Sotto alla pensilina numero 26, davanti a una sala slot e al discount, risuonano i telefonini di una decina di persone. «È arrivato anche a voi?» chiede Valeria. Ha trent’anni ed è figlia dell’incertezza: torna a casa in un paesino delle montagne della Carnia una volta ogni due mesi perché di più non se lo può permettere. Il messaggio di FlixBus - il portale che fa da intermediario tra passeggeri e autolinee che sfrecciano su e giù per lo Stivale - segnala un ritardo tra i 10 e i 15 minuti. «Sarà colpa del traffico, al peggio ci godremo il paesaggio, smorza Valentina. È diretta a Roma per riprendere la figlia adolescente, l’unica in famiglia a cui è concessa una vacanza: «L’ho accompagnata con il Frecciarossa, ma da sola per risparmiare viaggio in bus: trenta euro contro cento, almeno dieci ore invece che sei».
Alla visione della livrea verde-arancione ognuno cerca di guadagnare posizioni in una coda ingegnosa. Siamo in ventitré, compresa una decina di austriaci già a bordo. Si scende in pianura tra capannoni dismessi, ipermercati e saldissimi d’estate, giù fino al petrolchimico di Marghera. Poi la magia di Venezia sbuca oltre il finestrino e gli stranieri sbarcano per la loro dose di bellezza “mordi e fuggi”. C’è chi guarda le partite di calcio in streaming, chi se la prende con i migranti che rubano il lavoro, una quarantenne al cellulare che rende nota ad alta voce la sua vita sentimentale. Quando il bruco fora l’Appennino, l’anziano in terza fila smette di russare e borbotta: «Speriamo di non fare l’incidente. Alla fine uno accetta il rischio», ragiona, «questo costa meno».
Il bus si ferma e sbuffa: 30 minuti di pausa. Valentina è delusa. Sperava di vedere Firenze, ma la fermata è all’uscita dell’autostrada, in un parcheggio. «Per entrare in città da qui devi prendere la tramvia», spiega l’autista. Guida da Venezia perché i suoi due colleghi sono già tornati su in Austria. «Ho fatto il camionista per 20 anni, poi la ditta è fallita». Cinquantasei anni, il sogno di fare il cammino di Santiago a piedi in meditazione e due figli ancora da far studiare. Sedici ore al giorno in viaggio, «ma lo stipendio è buono: 2.600 euro». Lavora per una delle sessanta ditte partner di FlixBus che versano tra il 25 e il 30 per cento degli incassi ai tedeschi.
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La piattaforma bavarese non ha autisti né mezzi, ma è la rete di autobus a lunga percorrenza più estesa d’Europa: controlla le prenotazioni, gli algoritmi che scelgono percorsi e orari, impone gli standard di sicurezza. Per la società l’Italia è il secondo mercato, collega 450 città ed è un business che funziona, tanto da attirare i capofila dell’avventura Italo che vogliono fargli concorrenza scendendo sull’asfalto.Si riparte, il traffico aumenta, proprio dove le tratte ferroviarie scompaiono. I binari dell’Italia centrale si spezzano, interrotti nella pancia appenninica, divisa tra Adriatico e Tirreno.
Oltre 700 chilometri e 10 ore di viaggio più tardi, accanto alla stazione avveniristica, appare la fermata Roma Tiburtina in un brulicare di gente sommersa dall’afa e dall’odore di piscio. Per proseguire verso Sud occorre non sbagliarsi. Nel giro di mezz’ora partono ben sei bus. Quello per Catanzaro impiega quasi otto ore. A bordo Javier Mammissolle tiene stretto un atto di nascita ingiallito: “Salerno 19 agosto 1896”.
Javier viene dalla Patagonia e porta con sé la delusione di un inganno. Assunto in Svizzera come chef si scopre illegale e così da un mese arrostisce carne argentina a Borgia, un paese nella Calabria jonica, e spera di ottenere la cittadinanza grazie al bisnonno italiano. «Prendo 300 euro al mese ma mi danno l’alloggio», confida. «Increible» sospira la ragazza accanto. «È troppo poco».
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Si chiama Jamirca Ortega Péres «per gli italiani Marica». Ha trentotto anni, fa la barista a Cosenza ed è venuta a trovare nella Capitale gli amici cubani. All’andata ha speso 59 euro con il treno: «Oltre 7 ore fermando ad Afragola e Paola; ora pago 17 euro». Vite da pullman come quella di Antonio studente a Firenze. «A Sala Consilina, il mio paese, è da quando sono nato che dicono che riapriranno la stazione». I binari ci sono, i treni se ne sono andati via insieme alle parole e ai soldi. «Almeno eviti le code al passaggio a livello», ironizza un anziano napoletano.
Intorno il Belpaese va a fuoco, incendi da una parte all’altra dell’autostrada, fino ad imboccare la Salerno-Reggio Calabria, l’arteria degli appalti a fondo perduto. Corre sulle ruote l’Italia che si altera e si sgretola. Quella di Maria che oltrepassando il Po ha invocato la secessione e, anche se ha origini calabresi, non le importa che la Lega prima ce l’avesse con i terroni; dell’operaio Giovanni che non sa più se credere al M5S; di Michele giovane avvocato campano emigrato a Milano che vede i suoi coetanei «troppo incattiviti»; del quarantenne Riccardo che ha perso il lavoro da consulente finanziario e non si spiega come “noi” italiani «siamo il paese del caffè e la Nespresso è Svizzera, siamo un paese turistico e l’idea dei pullman viene ai tedeschi».
Jurgen li osserva e capisce poco. Ama l’Italia e d’estate si diletta a fare lo skipper. «Ma quest’estate ho subito tanti controlli dalla Guardia costiera e di Finanza. Ben undici. Mi hanno fatto cadere accidentalmente in mare il documento e sono dovuto andare a Roma per un duplicato. La mia barca ha bandiera tedesca, sono solo. È paranoia migranti». In penultima fila don Bruno Maouango sbircia l’orologio. Viene dal Congo e sta tornando con l’autobus per dire messa: non c’erano sostituti.
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Fuori dai finestrini scheletri di cemento, blocchi di mattoni, vite abusive e incompiute, aspirazioni stritolate. A Catanzaro il pullman non passa sul ponte. Un giovane dello Sri Lanka spiega: «Bloccano i mezzi pesanti, perché è come quello di Genova, l’ha costruito Morandi». Ritratto di un paese ormai segnato dalle troppe cicatrici e di una società nevrotica, spaventata dalla crisi del welfare, incapace di guardare con sicurezza al proprio avvenire, descritta con anni d’anticipo da Edmondo Berselli nel suo libro “L’economia giusta”.
Dal profondo Sud si risale alla ricerca di una vita possibile. Nicoletta e Leonardo sono una coppia di fidanzati ventenni. Lui sogna di prendere la patente per guidare un FlixBus, lei fa l’insegnante di sostegno. Da due anni le supplenze sono nella Capitale e quando la chiamano prende il regionale «impiego due ore e mezza. È spesso in ritardo e sto in piedi. Speriamo inseriscano presto un bus compatibile con i miei orari».
A Napoli una nonna tiene in braccio una bambina che piange: la madre sta partendo per andare a lavorare in Francia. I pensionati Marcello e Francesca raggiungono invece la figlia emigrata per lavoro «ha avuto un nipotino e non si può permettere la baby sitter». Le partenze a Sud non producono più rimesse, lo zio d’America è evaporato insieme ai paesi che si sono svuotati.
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Il giovane autista controlla i documenti di quelli diretti Oltralpe e di alcuni stranieri. Tre badanti moldave passano, un migrante di colore no. «Fallo salire», urla un suo amico, «deve andare solo fino a Firenze. È malato, non ha i documenti». Nulla da fare. Rimane lì sulla banchina, le mani segnate dalla scabbia.
Il mezzo a due piani riparte, caracolla sulle buche. Giovanni giardiniere a Nizza arriverà alle cinque del mattino. Fa amicizia con Andriy che alterna messaggi vocali in ucraino a frasi in napoletano. Antonino domani mattina a Tolone ha un imbarco sulla Corsica Ferries per altri due mesi «che a novembre mi nascono i gemelli».
Oltre duemila chilometri in 29 ore di viaggio per 75 euro, avvistati solo due libri (“Cronache di poveri amanti” di Vasco Pratolini e “Quattro dopo mezzanotte” di Stephen King), una “Settimana enigmistica”, zero quotidiani, 25 borse frigo, più di un centinaio di teste reclinate sul cellulare. Meglio osservare lo schermo che guardare al futuro.